Su Raiplay potete trovare Princess (2022) di Roberto De Paolis, protagonista una nigeriana non professionista (che recita con una naturalezza notevole a pregio di De Paolis), Kevin Glory, che fa i conti con il suo passato dando materiale al regista e sceneggiatore per raccontare la vita, tra fiction e realtà, di lei e di alcune “colleghe” prostitute che bazzicano in un bosco nei pressi di Ostia. Lo stile documentaristico ed episodico si amplia verso una poetica realistica in cui protagonista è proprio la natura dove le ragazze vivono come fiere allo stato brado. Le loro prede/aguzzini sono i clienti, uomini arrapati o disagiati, gentili o maleducati, approfittatori o semplicemente persone che “vogliono star bene”. Le ragazze litigano, si agghindano, mangiano quello che trovano nel bosco (una volpe…) e cercano di mettere insieme denaro mettendo a disposizione il loro corpo, un corpo che mentre viene penetrato e usato per Princess è come se non fosse il suo, ma si immagina (o le hanno fatto credere) una stregoneria per cui quando qualcuno sta con lei è il corpo di una vecchia in Nigeria che sente il dolore. Riacquisterà un po’ della sua giovanile voglia di vivere quando incontrerà un cercatore di funghi e amante degli animali (ma asociale e misantropo) che in qualche modo è attratto dalla ragazza e forse se ne innamora. La porta a casa e sembra che possa nascere qualcosa ma una semplice vergogna notturna fa scappare Princess da lui, evidentemente sentendosi qualcosa di estraneo a quello. Un film da vedere anche solo per capire un po’ meglio queste ragazze sfruttate ed emarginate. (voto 6,5) La Peugeot fuoriserie di un ricco cocainomane sembra l’unico product placement del film.
Roald Dahl non ha bisogno di tante presentazioni, scrittore britannico specializzato in storie per l’infanzia creative e originali famosissimo in tutto il mondo e, soprattutto, più volte frequentato dal cinema. Ultimo fan è Wes Anderson con i corti prodotti da Netflix tratti da alcuni suoi racconti. Ma è inutile ricordare i suoi personaggi più volte portati sullo schermo, Willi Wonka, Il Gigante Gentile e Matilda. Quello che è interessante da dire è che tutti, da Spielberg, ad Anderson, a Burton fino al Mel Stuart de La fabbrica di cioccolato del 1971 ne hanno colto la visionarietà trasportandola sullo schermo con personaggi grotteschi e lunatici, scenografie spettacolari ed esaltazione dei colori. Così avviene anche per la trasposizione del romanzo di Matilda, la bambina magica e ribelle, nel film tratto dal musical di Dennis Kelly (prima rappresentato nel West End londinese per poi approdare con successo a Broadway) diretto dal regista Matthew Warchus, quello di Pride per intenderci. Matilda the musical (2022) visibile su Netflix è uno spettacolo che, oltre all’udito tramite le tante canzoni, mira a meravigliare anche la vista con i colori, le coreografie, gli effetti speciali, le caratterizzazioni dei personaggi (principalmente la trasfigurata Emma Thompson nella grottesca figura della preside aguzzina). Un bello spettacolo con buona inventiva e bravi interpreti in cui Warchus si sbizzarrisce non tenendo mai ferma la camera riempiendo lo schermo di carrellate, zoomate, riprese acrobatiche, piani sequenza in movimento, talmente tanti movimenti che spesso vanno a discapito delle coreografie. Mantiene anche, senza edulcorarlo più di tanto, il lato ribelle con la rivolta degli studenti della scuola tra Zero in condotta di Vigo e Rock’n’roll High School con i Ramones; rivolta che a guardar bene è anche rivolta sociale e contro i genitori, il tutto naturalmente mantenendo un divertimento “per famiglie”…(voto 6+) Product placement principalmente per Kellogg’s anche se si ha modo di vedere macchine fotografiche Canon e bottiglie di liquore tipo Bols.
Ogni tanto mi piace curiosare tra i titoli del mainstream Bollywoodiano proposti da Netflix per bearmi per circa tre ore (difficilmente i film sono più corti) dello spettacolo rutilante spinto all’eccesso. Bisogna dire che spesso le trame piuttosto complicate, con tanti filoni da seguire, si basano su problemi sociali o storici non banali. Tra balletti e musica, trombonate degli attori principali veri divi da ammirare, sfide corpo a corpo oltre l’impossibile, amori contrastati e rapporti parentali al limite dell’esasperazione che neanche Matarazzo… vi si trovano argomentazioni decisamente serie, raccontate in questo modo spettacolare, e quindi che rischiano di restare sepolte, ma in cui sicuramente la popolazione numerosa che accorre al cinema può riconoscersci. Nel caso di Jawan (2023) del regista Atlee, si mettono in scena le spettacolari avventure di un Robin Hood moderno che combatte contro il deragliamento della sanità dovuto alla corruzione (decine di bambini lasciati morire perché per procurarsi le bombole d’ossigeno bisogna pagare una “commissione” a dei politici), contro lo sfrenato accaparramento di denaro degli affaristi a danno dei poveri contadini (per acquistare un trattore le tasse sono più alte che non per l’acquisto di una Mercedes, inoltre le banche per piccoli prestiti non restituiti chiedono interessi e pressano i poveracci fino a spingerli al suicidio), contro i trafficanti d’armi che pensano solo ai soldi fornendo anche fucili che non sparano a soldati impegnati a combattere il terrorismo così molti di loro muoiono e nonostante ciò la fanno franca. Le sue azioni articolate e scenografiche portano alla ridistribuzione del denaro con metodi piuttosto estremi… Questo è lo spunto di partenza, l’eroe è Shah Rukh Khan che qui fa due ruoli ed è una superstar del cinema indiano tra Douglas Fairbanks e Bruce Willis, e il filone principale della trama in cui il nostro viene trattato da terrorista dal potere politico e dalla polizia. Vi sono però sottotrame, piuttosto tirate, che vedono in scena l’esistenza di un padre anche lui eroico e creduto morto (come detto Khan interpreta due ruoli, padre e figlio), l’innamoramento del protagonista con la poliziotta antagonista che lo deve catturare e il loro matrimonio senza che lei sappia che lui è il suo nemico, il passaggio della stessa dalla parte del… cattivo che in verità è quella del bene, la doppia vita di lui che è anche uno stimato direttore di un carcere femminile e le carcerate sono tutte combattenti per lui e per la giustizia, la tragica fine della madre incarcerata ingiustamente. Vi è infine anche un’ingenua proclamazione a favore dell’andare a votare e a votare giusto per cambiare le cose. Insomma, tanta roba da riempire eccessivamente il calderone e farlo traboccare. Apprezzabile comunque l’atto d’accusa tramite un linguaggio popolare e di intrattenimento. (voto 6)