L’inizio potrebbe essere stato girato da Miike, due ragazzi entrano in un ristorante e uno dei due taglia di netto una mano ad un altro ragazzo e la sequenza finisce con il primo piano della mano tranciata dentro ad una tazza di zuppa.
In realtà la premessa non riflette il resto dello stile registico ma è fondamentale questo momento letteralmente “tranchant” perché è l’inizio del film ma anche l’avvenimento decisivo e spartiacque dell’esistenza della famiglia di A-Wen Chen, istruttore di scuola guida irritabile, insoddisfatto e disilluso, perché uno dei due “macellai” è uno dei suoi figli. L’azione e la conseguente carcerazione di A-ho, il figlio con esagerazioni comportamentali, avranno effetti disastrosi sia sul padre che sulla madre e anche, tragicamente, sul fratello “bravo”.
Il film ha a tutti gli effetti una trama da noir francese o americano anni ’40, in cui un ex-carcerato (l’A-ho di cui sopra) cerca di rifarsi una vita con moglie e figlio diventando un lavoratore modello ma il cui passato ritorna a metterlo in difficoltà. Ma è come se fosse un noir girato da Hou Hsiao-hsien… Sequenze meditative si alternano a brevi sperimentazioni con addirittura un inserto di animazione, ellissi narrative a immagini poetiche. La città con i suoi vicoli e caseggiati disorientanti, la natura (nuvole minacciose, pioggia, sole, vegetazione) come spazio metafisico e sovrastante sulla piccolezza umana.
Chung Mong-hong, taiwanese, è il regista di questo sorprendente A sun che si può vedere attualmente su Netflix ed è anche il regista di Godspeed, uno dei migliori film visti al Far East Festival del 2017 anche se nella sua ultima opera vi è una ricercatezza formale decisamente superiore.
Il padre insegna su una Toyota, A-ho nel suo impiego in un lavaggio auto ha a che fare spesso con una meravigliosa Bentley poi il product placement del film comprende computer Dell, sigarette Longlife, abbigliamento Nike e il Family Market è lo store in cui lavora di notte A-ho come secondo lavoro.