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CINEMA
28 Marzo 2025 - 16:55

DIARIO VISIVO (Film da recuperare un po' dimenticati)

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La spia che venne dal freddo; Il mago di Lublino; La donna che non si deve amare
DIARIO VISIVO (Film da recuperare un po' dimenticati)

Da un libro del premio Nobel Isaac Bashevis Singer il produttore/regista Menahem Golan, che con il cugino Yoram Globus proprio nel 1979 rilevò la Cannon Film diventata famigerata negli anni con film “spettacolari” e di alterna qualità, trasse un ambizioso film, Il mago di Lublino (1979) con cui voleva miscelare arte, ebraismo, spettacolo, sesso e poesia. Il film ha una bella ambientazione, arredi e fotografia sono evocativi e riescono a farti ben entrare in un’epoca e in un contesto di fine Ottocento, Golan spinge sul sesso (molte nudità, perfino Shelley Winters estrae un seno matronale) che era presente anche nel libro e sulle apparizioni teatrali del protagonista (che diventa una specie di Houdini) più collaterale in Singer, raggiungendo in alcuni momenti ragguardevoli risultati visivi come quando mostra la maschera tragica di Magda truccata da clown e prossima ad impiccarsi o quando il mago si getta dal palazzo tentando di volare come un Leonardo da Vinci del tempo. Storia di un mago girovago (interpretato magistralmente da Alan Arkin) che si divide tra quattro donne, la moglie lasciata al paese, una disinibita abitante del “paese dei ladri”, la sua assistente ed innamorata (continuamente tradita), la fragile Magda e il suo nuovo amore, la vedova borghese caduta in disgrazia di Varsavia Emilia. Finirà per rovinare tutto cercando di procurarsi denaro per fuggire con Emilia e con la figlia malata, andando contro i propri principi morali, tentando un furto e sarà costretto a tornare al paese dalla moglie dopo che Magda si è suicidata e dopo che ha perso tutto. Qui diventa un asceta. Il film bello visivamente come detto, corposo e corporale, ha il difetto di una farraginosità nella narrazione. “Se paragonato all’opera di partenza, il film di Golan rischia inevitabilmente di non soddisfare le aspettative, privo com’è di gran parte di quella componente mistica e surreale di cui è intriso il romanzo (…) ma anche dei suoi riferimenti profondi alla cultura Yiddish (…) Cionondimeno, il film non è privo di un suo fascino particolare” scrive Marco Cacioppo nell’esaustivo dossier “Cannon il cinema spaccone di Golan & Globus” sui numeri 105 e 106 di Nocturno. Halliwell sulla sua guida ai film vi trova riferimenti alti: “Curiosa e confusa favola con apparenti corrispondenze con la vita di Cristo, come ne Il volto di Bergman. Alla fine però non è indirizzabile a nessun tipo di pubblico, nonostante momenti di intelligenza”. Kezich lo massacra: “Al di là della scelta felicissima del protagonista la pellicola ha poco o niente da offrire (…) il gusto dello spettacolo è banale, da operettona fintamente sontuosa, appena sostenuto da qualche apparizione azzeccata”. Per il Mereghetti invece è “il film che non ci si aspetterebbe dal patron della Cannon: gonfio di pretese poetiche, e fiero di esibire costose ricostruzioni d’epoca. Diseguale e non del tutto riuscito” (voto 6+)

Dalla collezione Forbidden Hollywood (io posseggo i primi tre volumi, di cui uno dedicato a William A. Wellman, edizione TMC Archives, per un totale di nove DVD) recupero Waterloo Bridge (in Italia La donna che non si deve amare-1931) di James Whale, regista conosciuto più per i suoi classici horror che non per i melodrammi. Waterloo Bridge è la prima versione per lo schermo del dramma di Robert E. Sherwood che poi diventerà decisamente più famoso con il remake (anche se la storia è diversa in vari punti) Il ponte di Waterloo del 1940 con Vivien Leigh (regista Mervyn LeRoy). Il film contiene uno dei finali più “terribili” del cinema quando una bomba proprio sul Waterloo Bridge mette fine alla vita di Myra nel momento in cui aveva trovato finalmente la felicità. Un visone insanguinato che rappresentava la sua ambizione di uscita dalla povertà è quello che resta di lei sul ponte. Chi è Myra? E’ una ex-ballerina diventata prostituta in tempo di guerra e che si guadagna la vita concedendosi per denaro ai soldati in licenza, bazzicando principalmente sul ponte di Waterloo in una Londra sotto i bombardamenti. Roy, un soldato ingenuo che non ha capito la professione di lei, si innamora di Myra (in questa versione la protagonista è Mae Clarke) e la presenta ai suoi, famiglia ricca e anticonvenzionale, per proporla in sposa. Myra è renitente perché non vuole svelare il proprio passato a Roy che però lo viene a sapere dalla bisbetica padrona di casa e la chiede comunque in sposa. Poi il destino… Siamo sempre dalle parti de “La signora delle camelie”, archetipo di tanti melò, ma nel finale lei non muore di malattia ma a causa della guerra. Tra gli interpreti nel ruolo della spigliata sorella di Roy una ventitreenne Bette Davis al suo terzo film. (Voto 6,5) Due grandi magazzini sono citati nel film (Bradburys e Stag and Medals probabilmente esistenti al tempo?) così come Rolls Royce e il Times per quanto riguarda il product placement.

Se un film è girato da un grande autore (e Martin Ritt ha dato prova di esserlo in varie opere) lo si capisce già da come viene impostata l’atmosfera e il tipo di “linguaggio” cinematografico usato. Già nel primo quarto d’ora capiamo che La spia che venne dal freddo (1965) non è un semplice film di genere spionistico prodotto per un divertimento generale, ma che siamo di fronte ad un altro modo di affrontare il materiale di partenza a disposizione (il romanzo di John Le Carrè), ovvero di non renderlo spettacolo per pubblico in vena solo di essere sorpreso e ammaliato dal mondo delle spie (come fino ad allora è stato abituato a vederlo, un mondo di lusso, charme e morti enfatiche e “giuste” per la causa), ma di puntare su un realismo e una sporcizia materiale e d’animo. La figura di Richard Burton che si aggira per una Londra popolare con fare disilluso, ubriaco, sotto la pioggia, infilandosi in bar chiassosi e piccoli alimentari, accompagnato da una musica mai invadente e malinconica, è già cinema autoriale tout court. Non vi sono qui femme fatale, agenti segreti seducenti, nemici orribilmente accattivanti. Vi è Alec Leamas (Burton) che ha visto troppi colleghi morire al di là del muro (siamo in piena guerra fredda e il “gioco delle spie” riguarda occidente e mondo comunista con punto di separazione al Check point Charlie a Berlino) e alla fine del film ci darà una visione del tutto differente dallo stereotipo della “spia”, ovvero dipingerà se stesso e i colleghi come farabutti, ubriaconi, mariti traditi, esseri che hanno vite pulciose e misere. Vi è poi la bibliotecaria di cui si innamora, una donnina (Claire Bloom) dalla bellezza discreta, un’ingenua utopista sull’ideale comunista che, proprio nel finale, dopo le disilluse parole di Leamas, chiede ma e l’amore? Tenerezza e tristezza di due personaggi che cercano di uscire da quel teatro assurdo che è la Realpolitik che li sta stritolando dopo averli usati come burattini. Inghilterra, Olanda, Germania Orientale. Comunque cieli plumbei, vicoli sporchi, sotterranei putrescenti, persone spaventose nella loro duplicità. E il finale, un finale tremendamente e tragicamente romantico. Un capolavoro che nobilita il genere. (voto 7/8) Piuttosto lungo delle marche nel product placement del film, Pan American e KLM, Kodak, Kellogs, Lyons tea, Aspirin, Hertz, Daily Express.

Stefano Barbacini

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