Sono un po’ sconcertato, ancor prima di entrare al cinema per vedere Here di Zemeckis, dall’accoglienza decisamente opposta del film da parte della critica italiana (che pare tutta gridare al capolavoro) e quella anglosassone che invece lo ha massacrato (su Imdb il pubblico gli dà poco più di 6 e le critiche americane sono in media fortemente negative). Addirittura su FilmTV, Pietro Lafiandra lo esalta con un: IL 2025 È APPENA COMINCIATO, MA PER NOI HA GIÀ IL SUO CAPOLAVORO: CON HERE, ROBERT ZEMECKIS SPOSTA ANCORA UNA VOLTA LE FRONTIERE DEL CINEMA. Cavoli addirittura. Critica che lo pone come insuperabile preventivamente… E sotto, dove si danno i voti, difficilmente se ne vedono di inferiori all’8, tantissimi 10 e 9.
Ora io mi accingo ad entrare un po’ intimidito da tutto ciò perché, conoscendo il regista, innovazioni tecnologiche me le aspetto, ma non è che sempre (anzi abbastanza di rado…) le sue anticipazioni futuristiche abbiano portato a capolavori… Magari curiosità, importanti sperimentazioni, ma poi poca ciccia…
Ok, allora guardiamo a queste innovazioni. Intanto la trovata del film è quella (mutuata dalla graphic novel da cui è tratto, ma come spesso ripeto, l’arte dei comics, seppur arte visiva sorella di quella cinematografica, spesso e volentieri riproporla al cinema rischia di diventare “slavata” e banalizzata) di essere un lungo piano fisso su un unico luogo che diventa finestra del tempo. All’inizio addirittura si parte dalla preistoria per poi approdare al tempo dei pellerossa in cui vi era solo natura e verde, si passa poi ad epoche più recenti, quando vi si costruisce la casa. La maggior parte del tempo comunque riprende una stanza in cui si alternano vari abitanti nei secoli. Immaginatevi un desktop di un computer in cui si aprono finestre su altri periodi storici che poi vengono allargate e diventano scena. In realtà la maggior parte di tutto questo è solo un giochino fine a se stesso dato che la storia dei pellerossa, quella dell’inventore ottocentesco della poltrona ribaltabile, quella degli abitanti di una villa settecentesca, quella della famiglia di colore che la abita nel periodo del covid, non portano nulla al racconto principale, che è quello di due generazioni della famiglia di Al (Paul Bettany), reduce di guerra e venditore porta a porta, e della moglie Rose (Kelly Reilly) che poi diventa quella del loro figlio Richard (Tom Hanks) e della consorte Margaret (Robin Wright). Ora la trovata porta all’estremo esperimenti già visti, ad esempio Greenaway con le finestre de L’ultima tempesta (con meno mezzi ma più inventiva) o Von Trier con Europa (sovrapposizioni temporali e spaziali ma con più visionarietà) oppure quella del film totalmente in pianosequenza (qui il piano di ripresa è fisso ma il concetto uguale); mentre il fissare un luogo, una casa, un punto insomma in varie epoche storiche lo si era già visto nel lontano 1960 in L’uomo che visse nel futuro di George Pal…
L’altra esplorazione verso il cinema del futuro è quella dell’utilizzo massiccio della I.A., con cui vengono ringiovaniti Tom Hanks e Robin Wright riportandoli al loro aspetto dei tempi di Forrest Gump…; impressionante da un certo punto di vista ma anche deludente per quanto risultino falsi i loro corrispettivi digitali. Il film praticamente non è stato girato ma creato con il computer e mi permetto di dire che se il futuro del cinema deve essere questo, dove il falso e l’immateriale sostituiscono il reale, il carnale, il fisico, allora non mi esalterei tanto, anzi ne sarei seriamente preoccupato. In pratica si sta preparando la sostituzione dell’attore definitivamente con le creazioni dell’I.A. e questo sarebbe un avanzamento? Sicuramente tecnologico, non certo estetico (quell’estetica da videogioco insopportabile).
Infine la storia. Un’interessante riproposizione dell’eterno dolore del passaggio del tempo attraverso la vita di due uomini mediocri. Al che torna sordo da un orecchio e mezzo invalido dalla guerra e che come ringraziamento dalla patria non ha nulla, anzi i sui sogni vengono azzerati da un lavoro non certo gratificante. Richard con un buon talento da disegnatore e grafico che abbandona la sua abilità e accetta la vita da impiegato di un’assicurazione per poter guadagnarsi il pane e, nonostante ciò, non riuscirà mai ad avere il denaro per andarsene dalla casa dei genitori. Al loro fianco Rose e Margaret, due donne frustrate e deluse dalla vita che consiste nel far nascere e crescere figli per poi scivolare dolorosamente nella vecchiaia e nella malattia. Una dolente ballata che riguarda la maggior parte delle coppie occidentali. Il film però anche in questo caso non raggiunge mai l’intensità del fumetto di Scott McGuire e nemmeno la triste melanconia genialmente orchestrata da Linklater nel simile, per argomentazione, Boyhood. Da questo punto di vista il film ha alti (ad esempio la confessione al telefono di Richard a Margaret in cui si scusa della sua mediocrità) e bassi (la riunione dei due con la lettura dei biscotti della felicità cinesi… mamma mia!). In generale però è l’intensità che manca e spesso si scade nel patetismo.
Insomma direi che io sono più per quello che in generale hanno scritto i critici americani come viene riportato da Eric Debarnot in una sua recensione online: “Here è un interminabile clip pubblicitario per un’assicurazione sulla vita, noioso al massimo grado per la sua assenza totale di situazioni interessanti e con personaggi per i quali non riusciamo a sentire la minima empatia. Il tutto ulteriormente peggiorato dalla bruttezza atroce del <<de-aging>> che rende falsa l’interpretazione degli attori”.
E’ vero che in questo “sommario” mancano le cose positive dell’operazione (l’esplorazione di nuovi linguaggi, mettere in primo piano degli antieroi…) ma insomma, tutta sta esaltazione da parte di critici scafati non me l’aspettavo. (voto 6-)
A parte un paio di ditte di traslochi (Mayflower, Allied) e un’osservazione positiva sul giger ale Canada Dry, non vi è altro product placement nel film.