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CINEMA
26 Dicembre 2024 - 20:25

DIARIO VISIVO (Alcuni vecchi film)

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E' mezzanotte... butta gił il cadavere; Arianna; The big shot; Sacco e Vanzetti; Al di lą della legge
DIARIO VISIVO (Alcuni vecchi film)

Su Cine34 abbiamo potuto recuperare un film piuttosto raro da vedere, il secondo film di Guido Zurli E’ mezzanotte… butta giù il cadavere (1966), una curiosità per il sapore d’epoca che si respira. Introdotto da una ballata dedicata alla mezzanotte e cantata da Nini Rosso (riproposta sui titoli di coda) si tratta di una commedia gialla in cui tre nobildonne ormai senza soldi (la bellissima Luisa Rivelli, Gia Sandri che Zurli vorrà anche nel western successivo Thompson 1880, e la tosta Lucia Modugno) rapinano una gioielleria con l’intenzione di vendere il malloppo ad un ricettatore piuttosto balordo interpretato da Gordon Mitchell in versione caricatura dei suoi personaggi soliti. Il loro piano viene intralciato dall’incursione di alcuni artisti bohemienne, molto beat, che ricordano i personaggi di Totò a colori, dalla mancata fiducia tra le tre sorelle e da un insospettabile killer. Muoiono praticamente tutti e il film, come ci dice una didascalia, finisce perché ha finito i personaggi, sotto lo sguardo di Guido Zurli che si ritaglia un cameo come poliziotto. Il film, piuttosto approssimativo come trama, ha il gusto del genere di film inaugurato da Crimen di Camerini, ovvero un giallo trattato con black humour molto soft. (voto 5,5) Il product placement si apre con una citazione di Cartier, poi un paio di whiskey (stranamente non il J&B stavolta) Park Lane e Ballantines. Ma la scena è tutta per i Grandi Magazzini CIM e per Coca Cola le cui bottiglie sono utilizzate per contrastare l’ubriacatezza e la cui pubblicità svetta in un kartdromo (insieme a Vespa). Si chiude con Alitalia nella scena finale all’aeroporto (anche se l’aereo non preso è dell’Iberia).

A volte ci si dimentica che Billy Wilder è uno dei più grandi registi-autori di Hollywood. Prima della generazione della “nuova Hollywood” ne aveva già incarnato lo spirito con i suoi riferimenti alla psicologia e alla sessualità che solo la bacchettonaggine dei tempi non gli ha permesso di essere ancora più esplicita. La moralità beghina nel suo film del 1957, Arianna, è presente nella figura di Maurice Chevalier, il detective parigino Claude Chavasse specializzato in adulteri, il quale denigra gli amanti fedifraghi e soprattutto il dongiovanni americano Gary Cooper/Frank Flannagan, noto in tutto il jet set internazionale, appena scoperto da lui in stanza con una moglie infedele. Chavasse cerca di tenere fuori dal viscidume (come lui definisce) della sessualità che esce dai canoni matrimoniali la figlia Audrey Hepburn (l’Arianna protagonista del film), ragazzina indifesa e apparentemente ancora lontana dai turbamenti adolescenziali. Ma proprio l’incontro con Flannagan a seguito dell’indagine del padre (gli salva la vita sostituendosi alla moglie traditrice) le scatenerà i normali istinti di attrazione di una donna per un uomo. Innamorata e ferita dai continui incontri di lui con altre donne (un primo incontro con lei a Parigi finisce presto perché Flannagan gira per il mondo per un anno), Arianna si crea un personaggio diverso da lei stessa per ripresentarsi a lui come donna dai tanti incontri occasionali e che non crede all’amore eterno. Inoltre le si concede tutti i pomeriggi facendogli credere che poi alla sera… Per creare questo personaggio utilizza le figure di uomini che si trovano nei vari dossier del padre, in una specie di variante anticipatrice de I soliti sospetti, film che è sicuramente debitore delle commedie di Wilder, Lubitsch e Mankiewicz. Colpito nell’ego di maschio alpha, Flannagan rischia di perder la ragione. Poi scoperto l’inganno, dopo un incontro con il padre di Arianna, decide di andarsene e lasciare la ragazzina avendo recuperato la fierezza del maschio che può tradire vs. la donna che invece no… Ma in un finale splendidamente romantico, colpito dalle lacrime della fragile ragazzina (la differenza d’età è notevole sia sul piano finzionale che su quello reale avendo Cooper il doppio degli anni della Hepburn), lui la solleva trascinandola sul treno avendo capito che ormai quel corpicino e quella “thin girl” sono parte unica della sua “nuova consapevolezza”. Flannagan impara ad amare. Commedia romantica con parti propriamente comiche (l’anziana che picchia ripetutamente e ingiustamente il suo barboncino; il trio di tzigani che seguono Flannagan suonando valzer e musiche zingare) che dietro all’apparente leggerezza dell’assunto cela analisi di coppia di intelligenza notevole. “La quasi totalità dell’opera di Billy Wilder potrebbe riassumersi in questa frase: le finzioni e le falsificazioni del reale sono tappe obbligate di un percorso di costruzione personale. Bugie, usurpazioni d’identità, sotterfugi, travestimenti, simulacri, mistificazioni: tutti i mezzi sono buoni per dare corpo ai propri fantasmi, prima che il ritorno alla dura realtà non arrivi a distruggere le illusioni, però necessarie all’accettazione di sé. Arianna non sfugge a queste regole, e se questa commedia romantica parigina sembra più educata di Baciami, stupido (1964) iconoclasta e urticante, i suoi fondamenti narrativi riposano su principi simili dell’attrazione, della cristallizzazione dei propri fantasmi e della sessualità liberatrice” (Baptiste Roux, De quoi “A” est-il le nom?, Positif n. 219, trad. mia). “E’ la storia di Cappuccetto (…) che riesce a mettere in gabbia il Lupo Cattivo (…) lucidità critica di un Wilder molto lubitschiano che dosa accortamente sentimento e cinismo, perfezionando il precedente Sabrina.” (Morandini) (voto 7). Product placement notevole a partire da una Vespa nella parte introduttiva, poi l’ambientazione nell’Hotel Ritz di Place Vendome a Parigi, le citazioni di Cartier e Mercedes Benz, Martini sul solito posacenere ben in mostra. Ma Pepsi Cola domina su tutto. Il protagonista milionario lavora con la brand statunitense e ne cita anche flani pubblicitari come Pepsi Cola chi la prova si consola (versione italiana naturalmente…).

Sempre rovistando tra vecchie registrazioni mi guardo un piccolo film dello specialista di B-movies Edward Killy (più di venti film da regista in 10 anni di attività più innumerevoli altri a cui ha collaborato come assistente e produttore), The big shot (1937), recuperato alla visione dalla sempre più rimpianta Cineclassics. Si tratta di una commedia in cui il sempliciotto veterinario Bertram Simms (con il bonario e pacioso volto di Guy Kibbee) eredita due milioni di dollari e un’enorme villa da un parente che non vedeva da un’eternità. Tanto da non sapere che era un boss della malavita, e quando si reca in loco per prendere possesso degli averi ha a che fare con il viscido e malvagio Martin Blake che gli fa credere di essere a capo di una grande azienda… legale. Lui vorrebbe tornarsene al suo lavoro con gli animali (la parte comica del film prevede anche un simpatico pinguino tra… gli attori) ma la moglie insopportabilmente parvenu lo incalza. Grazie alla solidarietà della figlia e del di lei fidanzato, però, Bertram si defila e aiuta quest’ultimo, aspirante giornalista, a creare una task force con il direttore del giornale locale per contrastare la malavita. Peccato che per un equivoco proprio Bertram venga creduto il capo della banda criminale e quindi la task force teoricamente rischia di scatenarsi anche contro di lui! Il film di serie B di poco più di un’ora di durata si segue piacevolmente e offre anche spunti non banali (come contrastare i malviventi e i politici che vogliono imbrigliare la libertà di stampa? Creare una banda di giustizieri senza preparazione specifica non rischia di colpire anche innocenti?). (Voto 6). American Airlines unico product placement.

“Come vuole la legge, io lo dichiaro morto” è la potente epigrafe di un film “politico” di Giuliano Montaldo che rievoca l’assassinio legalizzato di Sacco e Vanzetti (1971) nel Massachusets nel 1927. Accusati ingiustamente di rapina e omicidio, nonostante le clamorose debolezze delle accuse, furono giustiziati fondamentalmente perché anarchici e immigrati italiani (considerati esseri inferiori dal razzismo del procuratore). Il film racconta di come, se potere politico e potere giuridico si mettono d’accordo, diventano una macchina di sopruso inarrestabile (per questo è importante mantenere la divisione dei poteri ben distinta…). Montaldo gira al suo meglio inserendo anche immagini documentarie in bianco e nero dei moti di piazza della comunità italiana in America e, sempre in bianco e nero, nell’incipit e nel finale (esecuzione sulla sedia elettrica) ricostruisce il loro dramma con immagini crude e incisive. Il resto della pellicola, con colori sobri “d’epoca”, ricostruisce la loro vicenda utilizzando il genere processuale nella prima parte e la detection nella seconda combinando felicemente narrazione politica e spettacolo (vi sono sentori anche di gangsteristico hollywoodiano e western). Un film dirompente e accusatorio uscito in un momento (quello “sessantottino”) in cui riescì così ad avere valenza contemporanea (tutto il caso Sacco e Vanzetti fu ostacolato dalla Rai e la frase di Volonté “Viva l’anarchia” fu censurata). Premiato a Cannes è un film assolutamente da recuperare in cui “il tema musicale con la canzone di Joan Baez è uno di quelli che non si dimenticano” e che “è divenuto subito un classico del “cinema politico” italiano allora in auge, merito anche dell’intensa interpretazione dei due protagonisti Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla che riescono a coinvolgere in una necessaria indignazione morale” (da recensione del dvd della Ripley’s Home Video di Antonio Guastella su Nocturno 10 del 2003). Non è dello stesso parere Kezich che nella sua raccolta di recensioni Il Millefilm, Oscar Mondandori, scrive: “il film non suscita entusiasmo. Siamo in un ambito decisamente oratorio, per non dire edificante: il discorso politico risulta schematico, il traliccio processuale trasuda convenzioni e l’ambientazione americana è finta (…) e il tutto è condito da una lacrimosa canzone che viaggia sotto la sigla di un’accoppiata per lo meno dubbia: Joan Baez ed Ennio Morricone, come dire l’America del dissenso più il western all’italiana”. Il Morandini sul suo dizionario: “un film all’insegna dell’efficacia narrativa, oratorio senza enfasi, un po’ ripetitivo, in stabile equilibrio tra informazione e denuncia anche se non sempre fa quadrare i conti tra analisi e dimostrazione.” (voto 6/7)

La colpa e la redenzione, la doppiezza dell’animo umano. La voglia di normalità dopo una vita da vagabondo truffatore e ladro. Questo nella figura di Cudlip, interpretato da un Lee Van Cleef in una delle sue migliori performance (truce, ironico, romantico impacciato, pistolero senza pietà), coprotagonista di Al di là della legge (1968) di Giorgio Stegani, uno dei tanti spaghetti western con sottotrame psicologiche che hanno fatto grande il genere anche stando all’ombra dell’ingombrante ala leoniana. Un buon film con una trama ben articolata in cui Cudlip e altri due compari (tra cui Lionel Stander ottimo nell’interpretazione di un predicatore… analfabeta) si dilettano in rapine ingegnose. Una delle loro vittime è l’altro protagonista del film, Ben Novak (un Antonio Sabato decisamente sottotono rispetto alle due “maschere” di Van Cleef e Stander) che diventa però amico del duro Cudlip fino a fargli pensare di cambiare strada. Addirittura fa in modo che diventi sceriffo del paese e si innamori di una cuoca della miniera d’argento diretta da un anomalo Bud Spencer, moderato e senza barba. Nel paese la minaccia è rappresentata dal bandito Burton, spietato capobanda disposto a tutto per metter le mani sull’argento della miniera. Burton è incarnato dall’iconico Gordon Mitchell in completo nero come già in John il bastardo dell’anno precedente e con un’espressione granitica e minacciosa che non lascia mai. Uniti contro il nemico, Cudlip e Novak, con l’aiuto dei due compari del primo, avranno uno scontro decisivo nella miniera ma qui Cudlip deve prendere una decisione perché, sventato il pericolo Burton, deve vedersela con il Predicatore e il compagno decisi a prendersi per sé stessi l’argento. Andarsene con loro o prendere le parti dell’onesto Novak? Ottime interpretazioni e una buona regia con momenti di felici intuizioni come alcune riprese in plongée e dal basso e sfruttando bene il paesaggio dell’Almeria e la fisicità degli attori. Al proposito scrive Jean-François Giré (Il était une fois… le western européen, Dreamland editeur): Mitchell, attore monolitico, ritrae a meraviglia questo assassino implacabile. (…) sembra un uccello del malaugurio: colpito da un proiettile, cade dall’alto dispiegando le braccia come delle ali. Un piano in plongée ci offre la visione insolita del suo corpo schiacciato al suolo che sembra un corvo morto.” (voto 6,5)

Stefano Barbacini

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