Metacinema e melodramma nel film iraniano di Paymon Shahbod The last act. Su un autobus che viaggia nel desertico panorama iraniano nei pressi di Teheran, una troupe cinematografica sta girando un melodrammone in cui una donna deve rivelare alla figlia ritrovata dopo anni di esserne la madre che l’aveva abbandonata da piccola. Sul set “viaggiante” vi sono contrasti tra regista e attori, problemi tecnici, telefonate preoccupate del produttore, problemi con la polizia che li segue. Intanto vengono svelate le situazioni personali di alcuni dei partecipanti al film tra cui quello dell’attrice protagonista che, avendo una figlia malata e con cui ha bisogno di riavere un rapporto più vicino, comincia ad immedesimarsi con i problemi del suo personaggio nel film che stanno girando. L’opera complessiva però non riesce bene ad amalgamare le due parti e uscire dall’ovvio e dal già sperimentato. Senza rimembrare operazioni ben più riuscite di registi storici, quello che tenta di fare Shahbod riesce solo parzialmente, vi sono interessanti spunti nella riproduzione del lavoro della troupe ma il parallelo interpreti/personaggi non è ben costruito e non particolarmente interessante (aggiungerei che il regista nella fiction si dà arie di autore libero e artistico per poi dirigere un melodrammone strappalacrime…) (voto 5,5). L’attrezzatura Sony per girare il film è il principale product placement del film, praticamente l’unico, a parte una citazione di Instragam.
Una coppia tunisina sta aspettando la nascita del loro figlio. Il padre non vede l’ora di presentare agli amici il nascituro che deve essere rigorosamente maschio perché “un vero uomo deve dar vita ad un uomo”. Pensate allo shock di scoprire che il piccolo nato è un ermafrodita, ha cioè sia il pene che la vagina. I genitori sono chiamati così a decidere subito se definirne l’identità sessuale o se lasciarlo crescere così come natura l’ha voluto per far decidere a lui/lei quando sarà adolescente. Naturalmente la scelta è difficile e coinvolge anche i suoceri della madre. Neppure la religione può venire loro incontro perché l’imam interpellato non sa dare una risposta. Il padre è sconvolto, ha paura che togliendo l’organo femminile da grande possa diventare un omosessuale che per lui sarebbe la disgrazia massima. Che fare? Lo saprete guardando il film L’aiguille del regista tunisino Abdelhamid Bouchnack, ora in concorso al Torino Film Festival 42. Con tono di commedia il regista racconta questa storia di identità sessuale che mette di fronte i protagonisti ad argomentazioni serie come il maschilismo ancora presente nella società tunisina, i rapporti uomo-donna e genitori-figli, la libertà di decisione dei giovani sulla loro vita. Il regista utilizza un linguaggio cinematografico personale con soluzioni visive interessanti e ha una dolcezza di sguardo rara utilizzando lo zoom come fosse una carezza sui personaggi. (voto 6/7). Coca Cola, Adidas e Puma, satelliti Echos e… Eros TV nel product placement del film.
Lo stesso problema del film tunisino lo ritroviamo anche in Ponyboi di Esteban Arango, regista colombiano che lavora negli USA. Qui i genitori la decisione l’hanno presa subito e al protagonista, nato anch’esso ermafrodita, viene subito tolta chirurgicamente la vagina. Quando però diventa grande la sua confusione sessuale è notevole e, pur non volendo diventare totalmente donna, si sente femmina con il pene. Cacciato di casa dal padre maschilista quanto il tunisino de L’aguille, lo troviamo ad inizio film impiegato in una lavanderia gestita da Vinnie (Vincenzo Marino), piccolo delinquente di chiare origini italiane che dietro le apparenze da imprenditore cela un’attività di pappone e spacciatore di droga. Ponyboi è una delle sue prostitute e durante un rapporto a pagamento vede morirgli tra le braccia un importante mafioso. Saranno guai per tutti. Tra pulp ed estetica queer, un film vivace e divertente che riesce comunque ad essere pure sentimentale e problematico. (voto 7) Un pick-up Ford rosso funziona da collante con il padre e come product placement del film.
Fuori concorso al Torino Film Festival è stato presentato l’ultimo film di Dito Montiel, regista americano che avevamo perso un po’ di vista. Il titolo è Riff Raff (nulla a che fare con il film di Ken Loach del 1991. Si tratta invece di un film nel solco dei “tarantinati”, ovvero di coloro che fanno del pulp, dei dialoghi pieni di black humour e delle azioni inaspettate perché assurde e insensatamente violente il loro credo. Quando si riesce, come in questo caso, ad ottenere una sceneggiatura ad incastro ben elaborata (di John Pollono) e si hanno tra le mani due grandi vecchi come Ed Harris e Bill Murray, nonostante la formula sia ormai abusata, si riesce ad avere un divertimento assicurato per lo spettatore. Un anziano (Ed Harris) apparentemente pacifico e sereno, che vive con la seconda moglie di colore e con il loro figlio un idillio famigliare, quando si vede arrivare nella casa di villeggiatura il figlio avuto dal precedente matrimonio, la sua ragazza incinta (la nostra Emanuela Postacchini che ha anche alcune battute in italiano) e la ex-moglie alcolizzata, capisce che i suoi giorni tranquilli sono terminati. Il passato con le fattezze dell’amico di un tempo (Bill Murray), feroce assassino, è sulle tracce del figlio e di conseguenza anche di lui. La famiglia è in pericolo… Per un divertissement senza pretese (voto 6,5). Dunkin’ Donuts, Coca Cola, The North Face, Chanel, birra Lite. Abbondante il product placement in cui trova posto anche l’Advil per cui l’ex-moglie darebbe una tetta!
Pupi Avati presenta al Torino Film Festival un film prodotto da Rai documentari sull’amato Benedetto Croce, Un Natale a casa Croce, per ripercorrerne la vita (con i drammi della morte di genitori e sorella, di un figlio e della moglie in giovane età, l’amicizia con Giovanni Gentile poi interrottasi per l’affiliazione di quest’ultimo al fascismo, l’entrata in politica, le polemiche per le accuse di anticomunismo da parte di Togliatti dopo la guerra) utilizzando il doppio strumento, quello documentaristico con interviste e found footage, e quello finzionale con attori che interpretano Croce e la famiglia (la seconda moglie e le quattro figlie, il cognato e l’amico di una vita) durante il Natale. Se è interessante rievocare la figura di Croce al di là dei suoi testi, un po’ meno è la parte interpretata dagli attori con un dolce patetismo che riporta ad alcuni film dei film non riuscitissimi del regista. (voto 6-)
Grazie ai festival e ai film che arrivano da varie nazioni, lo spettatore gira il mondo seduto sulla sua poltrona e riesce a farsi un’idea di posti non molto frequentati da cronaca e opere d’arte. Uno di questi è la Somalia, nazione che da anni si trova in una guerra sottaciuta con attentati e droni americani che uccidono sospetti terroristi. Un posto da sempre sfruttato e inquinato (molta gente è morta per i rifiuti tossici gettati nel mare africano negli anni ’90. Mo Harawe ci illustra la situazione nel suo The village next to paradise attraverso le figure di fratello e sorella e del figlio di lui. I tre nella precarietà della loro vita dal futuro incerto (un personaggio femminile ad un certo punto dichiara che non ha senso fare figli in una nazione in cui il futuro non esiste) cercano di sopravvivere e di coltivare comunque qualche sogno. Lui fa un po’ di tutto, becchino, meccanico, corriere di armi, contrabbandiere per mettere assieme i soldi per far studiare il figlio in un collegio di città e magari farlo uscire da questa situazione di povertà. Lei ha appena divorziato perché non può avere figli e sogna di aprire una sartoria sua. Il racconto avanza con recitazione stilizzata, inquadrature fisse, primi piani espressionisti, dialoghi scarni e diretti. Un film che potrebbe esser stato girato da Kaurismaki se fosse nato africano… (voto 7). Ad un certo punto del film padre e figlio si trovano seduti davanti ad un muro dipinto dove vengono rappresentati alcuni prodotti probabilmente in vendita nel piccolo market a fianco, tra cui sigarette Royals e Glysolid. Poi abbiamo un camion Toyota, una radio Panasonic e una banca, la Baxnaano Bank tra il product placement presente.