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CINEMA
25 Novembre 2024 - 01:02

TORINO FILM FESTIVAL 2024

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Giorno 3
TORINO FILM FESTIVAL 2024

Min Bahadur Bham è un regista nepalese al suo secondo lungometraggio, Shambhala, presentato nella sezione Zibaldone (dove si trova un po’ di tutto…) del Torino Film Festival 42. Siamo sui paesaggi stupefacenti dell’Himalaya e in un villaggio si celebra un matrimonio d’amore tra Pema e Tashi, due giovani che s’intendono e si amano. Quando Tashi deve assentarsi per qualche mese per l’annuale mercato della regione, viene raggiunto da una fake news (una volta si diceva pettegolezzo…) per cui Pema, incinta, starebbe aspettando un figlio da un amico di Tashi con cui l’ha tradita. Tashi, che evidentemente crede più al primo che passa che non all’amata moglie, si vergogna a ritornare al villaggio e sparisce dalla circolazione. Dopo un’ora di film comincia così un lungo viaggio che lo trasforma in un roadmovie per la successiva ora e mezzo. Il viaggio, alla fine piuttosto inutile nella pratica, funziona da formazione personale per la donna ed è più metafisico che reale. Infatti, accompagnata da un monaco e da un amato cavallo bianco, percorre lunghe e vaste aree tra i monti ma viene sempre facilmente raggiunta dagli abitanti del villaggio che vogliono interloquire con lei o con il monaco, neanche avessero un GPS addosso. L’unico che non si trova è Tashi… Quello che veramente conta è che Pema raggiunge la piena consapevolezza della sua individualità e della sua indipendenza di donna e madre. E’ vero che è facile essere visionari e ottenere immagini stupende da un paesaggio così particolare, immenso e spettacolare, come quello nepalese, ma il regista sa il fatto suo e lo asseconda con un formato panoramico ed eleganti piani sequenza in campo medio e lungo. Un’esperienza visiva e spirituale notevole. (voto 7)

Chissà se Giorgia Farina e i suoi sceneggiatori si stanno preparando a narrare della contemporaneità al cinema utilizzando la metafora storica per paura di una futura censura, o se invece (più probabile) non sono stati interessati a mostrare come la storia rischi di ripetersi immutabile colpendo al solito le libertà individuali di donne e “diversi” sfociando nel machismo e nel razzismo. Ambientare, come hanno fatto, il loro film Ho visto un re (fuori concorso al Torino Film Festival 42) nel periodo fascista tra esaltazione dell’uomo conquistatore, sogni imperialisti, ragazzi obbligati a diventare Balilla, propaganda dove “la verità non ha importanza se si è capaci di farsi credere”, ideali di patria e famiglia (rigorosamente da far rispettare alle donne adatte solo alla procreazione mentre per gli uomini, vabbeh, bordello e amanti sono permesse…), nel periodo in cui non c’è pietà per “negri” (tutti animali e criminali), intellettuali “froci” e comunisti (basta obiettare qualcosa e così si viene definiti)… e non pensare che gli autori non si stiano riferendo all’oggi è da ingenui (e la voliera dove viene rinchiuso il ras etiopico in esilio forzato assomiglia tanto ad un “centro di accoglienza”) e non vederne i voluti paralleli con la retorica del potere e ad alcune frasi sfuggite a membri del governo. Utilizzando personaggi e stilemi della commedia all’italiana modernizzata e del racconto d’infanzia (la vicenda si svolge dal punto di vista di un ragazzino cresciuto nel mito di Sandokan, testo salgariano sovversivo e anticoloniale di cui il regime tentò di capovolgere il senso), Farina & Co. completano un’operazione postmoderna non priva di difetti ma in buona parte riuscita. (Voto 6+) Nessun product placement presente anche se lo spazio c’era, quando ad esempio un carabiniere chiede al ras di che marca vuole la sigaretta ma quest’ultimo non la dice…

Si è detto che questo sarebbe stato un festival in cui la maternità avrebbe avuto un posto centrale, ebbene il film coreano di Kim Hyun-jung, My best, your least, ne è l’espressione più completa. Ambientato in una scuola coreana, vede protagoniste due donne, una professoressa sull’orlo della crisi di nervi proprio perché non riesce ad avere figli ed una studentessa che invece, troppo presto, si ritrova in stato di gravidanza. Il rapporto tra le due passa da un primo momento conflittuale perché la professoressa si adegua alla volontà dell’Istituto (fare in modo che la ragazza se ne vada per non essere di esempio negativo per le altre) ma poi in un secondo tempo (mentre tra l’altro anche lei riesce inaspettatamente a rimanere in dolce attesa), sentendosi in colpa, diventa il suo miglior supporto per affrontare le difficoltà di avere un figlio così giovane e senza sostentamento e per affrontare la diffidenza e l’esclusione punitiva da parte delle istituzioni (non pare da quel che ci racconta Hyun-jung che la Corea brilli per assistenza a chi si trova in questa situazione), della famiglia e della società. Il film sciorina problemi importantissimi e sicuramente di grande interesse, ma lo fa senza una costruzione drammatica ben elaborata (troppi i cambiamenti di direzione, troppe le decisioni opposte prese da un momento all’altro) e arrivando ad assomigliare più ad un’analisi discorsiva e tecnica della questione, materia più da dibattito televisivo, convegno o, al massimo, documentario che non per una fiction da cui ci si aspetterebbero scelte più “cinematografiche”. (voto 5) Un pranzo da Subway, monitor Samsung, telefoni e computer Apple e il negozio Mommy Bird nel product placement del film.

Tangenzialmente di maternità si parla anche nel film indipendente americano Tendaberry di Haley Elizabeth Anderson, pure in concorso al Torino Film Festival 42, ma le similitudini con il film sudcoreano finiscono qui. Dakota è una ragazza di origini dominicani ormai stabilitasi da anni a Coney Island. E’ qui che incontra l’immigrato ucraino Yuri con cui ha una felice e intensa storia d’amore. Quando il ragazzo deve tornare alla terra natia a causa del padre malato, lei scopre di essere incinta e sola. Certamente non si facilita l’esistenza con i suoi comportamenti e le sue scelte avventate: si fa turlupinare da un falso agente immobiliare, arriva in ritardo al lavoro più volte e si fa licenziare, litiga con tutti, ruba ed inizia una vita randagia tra i sobborghi newyorkesi. Torna pure ber un breve periodo a cercare la madre in Repubblica Dominicana per superare il doppio dolore della perdita del figlio e della scomparsa del compagno, probabilmente finito invischiato nella guerra ucraina. Ritornerà poi a New York per cercare di trovare la sua strada. Un film in cui la regista sperimenta, partendo da un canovaccio solido, quello tipico del cinema indipendente (fotografia sgranata, dialoghi “naturali”, realismo di strada, montaggio rapido e libero) vari linguaggi dal video amatoriale, alla fotografia, al found footage. Il suo film è anche un omaggio alla Coney Island che fu, cioè quella degli anni ’80 del Novecento in cui visse l’artista Nelson Sullivan, personalità nell’underground di quel periodo, di cui ripropone parti del videodiario da lui girato proprio nei posti di svago allora esistenti ed ora abbattuti dalla speculazione ediliza. (voto 6/7). Non so se si possono annoverare tra il product placement le scene girate all’interno del Barclay Center, le citazioni di Youtube e i vari prodotti accatastati negli scaffali del supermercato dove lavora la protagonista…

Muore suicida Liza sulle colline di un ameno paesaggio neozelandese. Il figlio Jack ritorna dall’Australia per il funerale dopo che le è stato allontanato da piccolo. Al funerale incontra la moglie di Liza, Jill e i due passano la notte nella casa in cui scopriranno che la donna defunta ha la capacità di trasferirsi a piacere nei corpi del figlio o della moglie per avere dialoghi con loro per interposta persona. Giungerà finanche a far congiungere carnalmente i due quanto è all’interno del corpo di Jack per poter fare ancora una volta sesso con la moglie Jill. Questa la trama del film neozelandese fuori concorso Went up the hill di Samuel Van Grinsven e, raccontata così in parole spicciole (ed eventualmente lasciata in mano ad un regista speculativo) sembra una traccia buona per un disastroso film commercial-erotico-kitsch. Invece nelle mani di Van Grinsven diventa una cosa serissima, girata in maniera stilosa (contrasti luce-ombra, linee architettoniche avanguardistiche, paesaggi glaciali come metafore psicologico-metafisiche) che mette in evidenza i segreti di Liza, una donna sadica e crudele, e i rapporti con i due famigliari. Il film flirta con l’horror per raccontare di scontri e legami difficoltosi dove amore e violenza si uniscono in una miscela malsana e mortifera. (voto 6,5)

Jorge Riquelme Serrano ripropone la formula del suo precedente Algunas bestas nel suo nuovo film Isla negra presentato Fuori Concorso. Un’isola, persone isolate in una casa, contrasti famigliari e sociali che progressivamente esplodono. In questo caso l’imprenditore Guillermo (un uomo viscido e vigliacco, insomma “de mierda” come viene apostrofato nel film) si porta la collaboratrice e amante Carmen nella casa che possiede su un’isolotto al largo del Cile. Qui sesso e progetti speculativi si mischiano mentre a bordo mare una tenda viene piantata e vi vanno a vivere una coppia di indigeni con il vecchio padre del marito, malato e in fin di vita. I tre disperati arriveranno ad “invadere” la casa dell’imprenditore fino alla morte del vecchio per poi entrare in violento contrasto con i ricchi vicini reclamando la restituzione delle loro terre e delle loro case distrutte dallo Stato cileno che ha affidato a loro due il progetto di rinnovo urbanistico. I contrasti sociali e le miserie dell’egoismo umano esplodono in un finale tutt’altro che pacificato. (voto 7)

Stefano Barbacini

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