La trilogia di film di “spionaggio” con protagonista Harry Palmer interpretato da Michael Caine inizia con Ipcress (1965) (che è anche il primo libro del Palmer letterario di Len Deighton, The Ipcress file del 1962). La storia, che comincia con la sparizione di uno scienziato, è da un lato semplificata nelle soluzioni, dall’altra complicata da mancanza di spiegazioni. Ma non è questo che conta, lo svelamento del mistero dei criminali (fiancheggiati da forze del controspionaggio inglese) e dell’operazione Ipcress da loro architettata e consistente nel condizionare il cervello di personalità di spicco, non è così interessante. Lo sono invece l’atmosfera totalmente British, il soffermarsi su azioni della quotidianità di Palmer (mentre cucina, mentre passeggia, mentre conquista una donna) e sulla sua ironia irrispettosa ma con classe; lo è soprattutto una regia curatissima da parte di Sidney J. Furie (che abbiamo conosciuto in altri film come mestierante che fa il compitino), praticamente nel film ogni inquadratura è studiata e ricercata, non esistono momenti di raccordo non elaborati, vi è attenzione sul posizionamento della macchina da presa, sui colori, sulle ombre, alcune quasi psichedeliche, vi sono inquadrature diagonali, sfocate, carrellate dall’interno di auto così come riprese dal basso, da dentro una lente d’occhiale, da sopra un lampadario. Visto oggi e visti i moderni film thriller odierni, risulterà sicuramente molto lento ad uno spettatore nato nel nuovo secolo, ma chi ha pazienza di gustarsi l’atmosfera pacata, il glamour vintage e la bellezza delle immagini, poi troverà gran godimento da quel po’ d’azione e di violenza della risoluzione finale. “E’ un giallo un po’ datato nello stile e nelle atmosfere anni Sessanta, ma non manca di humour britannico e suspence, e soprattutto è illuminata dalla sottile ironia di Caine, riluttante agente occhialuto e dimesso anti-Bond” (Mereghetti). “Un film di spionaggio intricato, spettacolare e narrato con una certa forza visiva” (Morandini) (Voto 7+). All’inizio del film l’auto di Palmer ha dietro di sé un altro mezzo che riporta la pubblicità della Pilsner, sempre con lo stesso stratagemma, un camion che passa e pubblicizza Air France, si fa product placement nel film. Olida champignon in lattina servono invece per la cenetta romantica.
Il secondo capitolo è Funerale a Berlino (1966) di Guy Hamilton, regista adepto al culto 007 (quattro sono quelli che lui ha diretto). Siamo a Berlino, una Berlino divisa dal muro e dove la guerra fredda è ancora più gelida del clima nordico. Qui un ufficiale dell’esercito sovietico chiede aiuto agli occidentali per disertare e abbandonare l’Est. Si rivolge ai britannici per avere una casetta con giardino nella terra d’Albione (gli americani no, troppo capitalisti). Il Secret Service della regina decide di mandare Harry Palmer, l’agente che ha brillantemente risolto il caso Ipcress. Prima deve contattare un certo Kreutzman specialista in fughe dall’Est all’Ovest, ne ha appena organizzata una pienamente riuscita prelevando un pianista tramite una gru mettendolo in un contenitore ad essa agganciato da una parte all’altra del muro. Il piano è quello di mettere il sovietico dentro una bara a sostituire un morto che ha le carte per passare il checkpoint Charlie (Mario Gariazzo in Lasciapassare per un morto di quattro anni prima aveva inscenato lo stesso espediente per passare dall’Italia alla Francia del protagonista rapinatore in fuga). Ma la faccenda è assai più complicata di così, come in ogni buon film di spionaggio vari sono i doppi giochi, difficilmente chi dà un nome è veramente quella persona e un’affascinante donna circuisce l’eroe con mire oscure. L’intricatissima trama aderisce lo stile spionistico alla realtà del tempo, ovvero guerra fredda e nazisti che si nascondono da agenti israeliani, anche se poi l’obiettivo finale è sempre quello del denaro. Harry Palmer mantiene il suo tipico aplomb britannico e la sua arguzia senza lo stile “sborone” di James Bond e la regia di Hamilton è più “leggera” di quella ricercata di Furie nel primo episodio delle avventure di Palmer. Il film resta comunque piacevole anche se richiede una certa concentrazione per non perdere il filo. Il film invece non è piaciuto al Mereghetti (un asterisco e mezzo) “il film scivola rapidamente nella noia”, un po’ di più al Morandini (due asterischi) “Prima intrigante, poi sempre più confusa, la vicenda ha tante giravolte che persino Sherlock Holmes ne rimarrebbe spiazzato. C’è suspence, comunque, e alcuni colpi di scena sono ben piazzati”. (voto 6,5). Il film inizia con panoramica iniziale sulla città dove spicca l’insegna Air France anche se poi è la Pan Am ad avere il miglior product placement come compagnia aerea. La sequenza più importante da questo punto di vista è all’interno della stazione di Berlino dove spiccano Revlon e Olivetti. Sopra tutto però incombe il simbolo della Mercedes, praticamente ovunque.
Harry Palmer se ne è andato dal MI5, agenzia di agenti segreti di controspionaggio britannica, per mettersi a fare il detective privato (la splendida sequenza iniziale è una delle 3 o 4 eccezionali contenute in questo film, un pianosequenza che inquadra in dettaglio alcuni oggetti che fanno capire più di mille parole la situazione del nostro: primo piano della porta con scritto H.P. detective privato, una scarpa bucata, tazzine di caffè e sigarette a terra, dove si trova anche un disco di musica classica, un reggiseno sotto al letto, il poster di una donna nuda affiancato ad una foto di Humphrey Bogart, piatti con resti di cibo nel lavandino vicino alla schiuma da barba, un archivio con scritto “divorzi” e foto di rapporti extraconiugali e scatole di Kellogg’s cornflakes, così Ross, il capo dell’agenzia trova l’ufficio-casa di Palmer quando vi si introduce) quindi lavori da quattro soldi, lunghi inseguimenti a piedi, qualche donnina allegra, il mito del grande detective, un po’ di musica colta per rilassarsi e pasti a base di latte e cornflakes… Naturalmente il suo rientro all’agenzia è scontato e viene messo sulle tracce di strane uova piene di virus che sono gestite a scopo di guadagno dall’amico di un tempo Leo (Karl Malden). A rischio della vita verrà coinvolto tra la Finlandia e la Lettonia prima da “controrivoluzionari” (ripresi in una calda sequenza che sembra girata da Gherman con cui il regista ci illustra questi rubizzi avventurieri vestiti di stracci mentre pianificano attentati mangiando pane e zuppa calda in un fatiscente tugurio, sequenza densa e calda, umana e materica) e poi nella lotta tra un magnate fascistoide e anticomunista che vuole invadere la Russia sovietica (che Trump abbia tratto ispirazione da questo personaggio che sembra la sua caratterizzazione?) e il furbo, ridanciano e ambiguo colonnello Stok (già incontrato in Funerale a Berlino). I due personaggi sono illustrati splendidamente da due geniali caratteristi come Ed Begley e Oscar Homolka. In mezzo a tutto questo la splendida Françoise Dorleac, la sorella somigliantissima di Catherine Deneuve (qui all’ultimo film prima del tragico incidente automobilistico che le toglierà la vita a soli 25 anni), che interpreta perfettamente la “solita” bella spia doppiogiochista e assassina. Il Cervello da un miliardo di dollari (1967) è stato diretto dal visionario regista inglese Ken Russell che lo trasforma in un’opera pop, sfruttando l’ambientazione “gelida” finlandese con le sue architetture nordiche, funzionali e minimaliste che mette in contrasto con l’arte figurativa dei quadri e dei dipinti a muro il tutto mischiato con scenografie “fantascientifiche” in cui un “cervellone” computerizzato gestito dal magnate americano comanda tramite i computer della Honeywell (principale product placement del film) Leo e i controrivoluzionari. Soprattutto Russell si sbizzarrisce nel finale, in cui l’americano tenta l’invasione all’Unione Sovietica, invasione che inizia con il fuoco e finisce inabissata nei ghiacci, parte in cui il regista scatena la sua visionarietà. Il film, a mio parere decisamente bello, ha un voto insufficiente su Imdb, forse perché il punto di vista “britannico” sembra propendere più per i russi che non per gli americani? (voto 7)