William Friedkin iniziò la sua carriera cinematografica con un documentario su un condannato a morte, The people vs. Paul Crump, con cui riuscì a salvare la vita all’accusato dimostrando che non vi era certezza della colpa. Friedkin ebbe poi dei dubbi sulla reale innocenza di Crump e ciò cominciò a fargliene venire anche sulla pena di morte, prima contrario poi possibilista. Arriviamo al 1987 quando, con la produzione di De Laurentis, gira Rampage, in cui porta al cinema un libro scritto da William P. Wood con lo stesso titolo e che parlava delle famigerate gesta del “vampiro di Sacramento”, Richard Chase, un giovane “perbene” che si era messo in testa di aver bisogno di sangue umano per poter sopravvivere. Per questo uccise e mutilò due famiglie totalmente innocenti. Catturato e tradotto in carcere iniziò un processo in cui si dovette decidere, più che metterlo a morte o meno (era scontato in caso di colpevolezza), se fosse in grado di intendere e volere al momento dell’omicidio. La prima versione del film (che ricordo incensata dai critici italiani fan di Friedkin con l’accusa al resto del mondo di non averlo capito, succede sempre così… bisognerebbe vedere i film senza sapere chi li ha girati…) restava sul problematico. Il dibattito tra difesa e accusa restava in bilico, si presentavano le varie motivazioni e alla fine ognuno poteva farsi la propria opinione. A seguito del fallimento della casa di produzione di De Laurentis, il film non fu ritirato e restò nel cassetto fino al 1992 quando, distribuzione Weinstein, Friedkin vi mise mano cambiando il finale (nel libro, nella realtà e nella prima distribuzione l’uomo venne condannato a morte e si suicidò prima dell’esecuzione), facendo in modo che con nuovi mezzi di analisi del cervello l’uomo venisse messo in un ospedale psichiatrico e lasciando intendere, con la didascalia finale, che potesse a breve essere liberato. Poi aggiunse un paio di scene che lo rendevano ben consapevole di quello che faceva e in pratica lo trasformò in un furbo che volesse farsi passare per malato mentale. Tutto questo per trasformare il suo film in un film senza dubbi pro pena di morte (lo dice lui stesso nella sua autobiografia). A questo punto ricordo che fu accusato, sempre in Italia, da più parti di “fascismo” con una presa di posizione altrettanto settaria che non quella dei sostenitori che non permettono si parli male di un film di un loro beniamino. Ora la versione del 1992 che fu titolata Assassino senza colpa? da noi, si può trovare su Amazon Prime. E’ un film a tratti crudo, a tratti visionario, volutamente girato in modo da farlo sembrare un documentario televisivo (probabilmente per ricollegarsi al suo esordio con obbiettivo finale diametralmente opposto) che si perde un po’ nel lungo dibattito del tribunale (Friedkin ha fatto decisamente di meglio in questo senso con il rifacimento televisivo de La parola ai giurati di Lumet nel 1997 e ancor più con il perfetto testamento finale della sua carriera L’ammutinamento del Caine). (voto 6) L’auto dell’assassino è una Chevrolet, nel film si cita Holiday Inn (la sua casa sembra un Holiday Inn), vi troviamo anche come product placement Motor Lodge, Coca cola e un orologio Aristo in un’importante scena.
Nel periodo più buio della sua carriera, William Friedkin, dopo il flop di Rampage, gira qualcosa per la televisione e un horror poco ricordato, L’albero del male (1990) di cui nemmeno lui cita nella sua autobiografia. Il film è stato massacrato dal popolo di Imdb e da buona parte della critica, leggermente meglio accolto da quella di genere. Si tratta di un horror con una storia piuttosto forzata in cui il cattivo è un albero che si nutre di neonati che gli vengono procurati da una donna-albero che si introduce in casa dei genitori dei piccoli come babysitter. Visivamente non è affatto malvagio ma si vede che Friedkin lo ha “subito” e si è adattato. Alla fine ne esce un prodotto da serata tra amici per guardare un B movie come se ne facevano una volta, lasciandosi andare al divertimento della trovata assurda senza piani superiori di lettura. Leonard Matlin così ne scrive sul suo Movie&Video Guide: “Il ritorno all’horror di Friedkin per la prima volta all’horror dopo l’Esorcista contiene qualche buona scena, ma una storia risibile e totalmente priva di umorismo. La Seagrove (l’attrice che interpreta la babysitter ndr) è molto brava in un ruolo impossibile da recitare”. Su The Psychotronic Video Guide si sottolinea che “c’è un feroce attacco di lupi e un albero che uccide dei motociclisti aspiranti violentatori. Quando il padre attacca l’albero con una sega elettrica, questo sprizza sangue e urla (Steve Johnson è colui che si è occupato degli effetti speciali). Mi ha fatto pensare al film From Hell It Came (B-movie horror anni ‘50 di Dan Milner che contiene un albero che… cammina ndr)”. Mereghetti non lo tratta male sul suo Dizionario: “Favola nera narrata con grande maestria (…) da incubo l’ambiente naturale, sinistro, maligno e minaccioso.” (** e mezzo) (voto 5,5)
All’inizio degli anni ’90 del Novecento, William Friedkin fa fatica a lavorare sia sposato con Sherry Lansing, un’importante produttrice di Hollywood. Nel 1994 gli capita tra le mani un copione di Ron Shelton, sceneggiatore e regista specializzato in film sullo sport, che è ambientato nel mondo del basket, mondo che Friedkin conosce assai bene essendo anche finanziatore e tifoso dei Boston Celtics. Il film, Basta vincere, non è propriamente un film agonistico, però, ma un dietro le quinte dell’arruolamento di giovani giocatori per le squadre di college americane. Dato che questi non si possono pagare per il regolamento sportivo americano, vi sono comunque traffici di regalie e favori ai giocatori che causarono lo scandalo raccontato nel film. La Western University di Los Angeles ha sempre avuto una squadra forte e uno dei migliori allenatori in circolazione, qui interpretato da Nick Nolte con energico furore, ma l’ultima annata è stata disastrosa per la mancanza di qualità tra i giocatori. Nolte allora si muove per andare a scouterare giovani promesse trovandone ben tre nella periferia povera, in campagna e nei bassifondi (due di questi sono interpretati da vere star del basket come Penny Hardaway e Shaquille O’Neill). Quando si avvicina l’inizio della stagione, però, due di questi fanno capire che, o gli vengono dati dei soldi e aiuti alla famiglia, oppure se ne vanno. Pete, l’allenatore, non ne vuole sapere ma poi viene avvicinato da un “amico” della squadra, un ricco personaggio che ha il volto volutamente antipatico e da “procio” di J.T. Walsh, il quale non si fa scrupoli ad andare incontro alle richieste dei ragazzi. Dopo la prima partita importante vinta contro la fortissima Indiana, Pete non riesce a superare i suoi rovelli morali e racconta pubblicamente la corruzione dei giovani scoperchiando la pentola delle gabole fatte per vincere nonostante tutto. Il film porta in scena una rettitudine quasi calvinista tipicamente americana che oggi stride con l’elezione di un presidente che ha in tribunale accuse pesanti quanto quelle del personaggio di Walsh nel film, ma che comunque è a capo della nazione. Il film pur essendo professionalmente pienamente sufficiente e nonostante la presenza delle star del basket (oltre alle due citate vi sono anche Larry Bird e Bobby Knight, l’allenatore reale di basket da cui si è ispirato Nolte per la sua interpretazione) non ebbe successo, secondo Friedkin nella sua autobiografia perché il regista non è riuscito a “catturare in un film l’eccitazione di una vera partita, che ha una suspense e una drammaturgia imprevedibile” (da Il buio e la luce, Bompiani, 2013) (voto 6) La Pepsi e la Lexus sono le dominatrici del product placement del film che prevede anche la presenza di birra Corona, citazioni di Mercedes e Ferrari, un trattore John Deere e Adidas come sponsor tecnico.
Partiamo dalla fine. Ovvero dal dopo. Il film di William Friedkin del 1995, Jade, è stato massacrato da critica e pubblico. La carriera del regista sembra avviarsi verso la fine. Il motivo per cui questo thriller erotico sia stato così tanto maltrattato è dovuto alla sceneggiatura del famigerato Joe Eszterhas già autore degli script di Showgirls e Basic Instinct. Evidentemente il connubio di noir e sesso che aveva segnato il successo dei precedenti film aveva finito la sua spinta propulsiva e infatti il regista, allora il più pagato di Hollywood, durò ancora poco nella mecca del cinema. Peccato perché così viene vanificato quello che di buono c’è nel film grazie al cast e alla regia di Friedkin. E’ vero che l’intreccio “giallo” non è particolarmente memorabile ma, rivisto oggi, la Fiorentino ha una presenza indubitabilmente forte (secondo Friedkin sfoggiava il talento e il sex appeal di attrici leggendarie come Ann Sheridan, Joan Crawford e Lauren Bacall), Caruso allora star televisiva e Palminteri fanno il loro e il film contiene una delle scene di inseguimento più bizzarre della storia del cinema, due macchine che si rincorrono in mezzo ad una processione della festa del capodanno cinese e alla folla di festanti che riempie la strada principale di Chinatown a San Francisco. La Fiorentino è una donna dalla doppia vita, sposa di un ricco e famoso avvocato, si concede per denaro in incontri sessuali in cui “le si può chiedere qualunque cosa” con il nome di Jade. Quando un importante personaggio viene ucciso (altro pezzo di bravura di Friedkin è il piano sequenza iniziale con la macchina da presa che si aggira per le stanze vuote di una villa-museo mentre si sente in sottofondo un tafferuglio ed un urlo, quello dell’assassinato) si scopriranno alcune foto del Governatore della città con alcune prostitute. Da qui si arriverà a Jade… è lei l’assassina? E’ vero che al film manca il pathos dei migliori noir e il rapporto del detective interpretato da Caruso con la Fiorentino poteva essere più “spinto” viste le circostanze, ma tutto sommato non mi sembra un film da buttare, si è visto molto di peggio. (voto 6) Magnavox, il ristorante Fior d’Italia di San Francisco e, soprattutto, la Ford Thunderbird nera protagonista dell’inseguimento sopra citato, sono i product placement del film.
Il momento più duro della sua carriera, viene superato da William Friedkin cambiando media espressivo. Tra il 1997 e il 1998 infatti il regista si cimenta in un film televisivo prodotto da Showtime, La parola ai giurati (1997), riproposizione del dramma giudiziario già portato sullo schermo da Sidney Lumet quarant’anni prima, e comincia una nuova carriera come regista di opere liriche con la sua prima, il Woyzeck di Alban Berg, a Firenze nel 1998. Trarre un buon film, sia pure girato con un budget non enorme e per la televisione, da un testo praticamente perfetto come quello di Bernard Rose è piuttosto facile e se poi lo si mette nelle mani di un regista dall’esperienza di Friedkin e l’interpretazione dei dodici giurati (per chi non lo sapesse è la storia di una giuria che deve decidere se un imputato sia innocente o colpevole di parricidio; all’inizio undici giurati contro uno sono colpevolisti ma, piano piano, l’unico che ha votato per l’innocenza smonta le convinzioni degli altri e le testimonianze su cui si basano, fino a capovolgere il voto di tutti) è affidata a pezzi da novanta come George C. Scott, Armin Mueller-Stahl, Ozzie Davis, James Gandolfini, Edward James Olmos, William Petersen e, soprattutto, Jack Lemmon nel ruolo che fu di Henry Fonda, ovvero il giurato innocentista, non può che uscirne qualcosa di memorabile. Tutto girato in una stanza vede il regista ingegnarsi per non impallare la scena in una rappresentazione teatrale “feci otto giorni di prove e dodici di riprese. Feci in modo che i giurati si muovessero per la stanza il più possibile, per evitare un effetto teatrale; e con gli attori lavorai soprattutto sul ritmo e sul tono. Usai due macchine da presa a mano, e incoraggiai gli operatori a lanciarsi e a decidere da soli le inquadrature, per dare al film un sapore documentaristico. E girai in sequenza, da quando i giurati entrano fino a quando escono.” (William Friedkin nella sua autobiografia Il buio e la luce, Bompiani, 2013). E’ anche un modo per ritornare indirettamente sul dilemma personale di Friedkin se essere pro o contro la pena di morte. Come ne era avverso dopo il caso Chase, a favore dopo i massacri di Mason e altri efferati delitti che gli hanno fatto girare Rampage, ora il caso Simpson e il testo di Rose probabilmente rimettono in dubbio ancora le sue convinzioni. Infatti se il giurato “illuminato” non avesse impedito la condanna dell’imputato, il ragazzo non avrebbe rischiato la pena di morte probabilmente da innocente? (voto 7)
Ormai specializzato in processal movies, Friedkin dirige l’avvincente Regole d’onore (2000). Ancora ottimi attori nel cast (Tommy Lee Jones, Samuel L. Jackson, Ben Kingsley, Ann Archer) e meccanismi ormai ben oliati utilizzati al meglio dal regista. Buone anche le scene di combattimento ambientate in Vietnam e in Yemen (queste ultime girate in Marocco). Però il film alla fine non soddisfa totalmente perché ha lo stesso problema di Rampage, ovvero costruire una storia in pericoloso bilico tra due opzioni morali che toccano tutti e sono di difficile risoluzione tranchant, con una scorciatoia di sceneggiatura che lascia con la bocca un tantino amara. Qui si tratta di due commilitoni, uno dei quali (Jackson) ha maniere piuttosto spicce per risolvere i problemi mettendo davanti a tutto la vita dei propri compagni di battaglia. In Vietnam uccide a sangue freddo un prigioniero per ottenere informazioni da un altro (e qui la cosa è vista con indulgenza, pensate se a farlo fosse stato un russo o un nazista, si sarebbe proposta la stessa indulgenza allo spettatore?) e nello Yemen fa sparare sulla folla che protesta davanti all’ambasciata americana uccidendo 83 persone comprese donne e bambini. Per questo finisce davanti alla corte marziale e ne viene assolto perché riesce a dimostrare che alcune di queste persone erano armate… Invece di andare a fondo su questo dilemma (se utilizzare mezzi estremi uccidendo anche innocenti per difendere le proprie truppe sia eticamente accettabile o meno), la “scorciatoia” del plot prevede che vi sia un politico “cattivo” che per salvare il nome degli USA nel mondo nasconde una videocassetta che riprende i manifestanti armati per poter far accusare il personaggio di Jackson per la sua decisione presa individualmente. Quindi il cattivo diventa quest’ultimo ed uno che uccide a sangue freddo urlando frasi piuttosto offensive, al limite del razzismo, finisce per essere dipinto come un integerrimo marine patriottico. Ora, non è semplice prendere posizioni in situazioni estreme e condannare senza attenuanti, ma così mi sembra decisamente semplicistico. Sceneggiatura di Jim Webb, un soldato e poi senatore statunitense che di questi ideali “tutti di un pezzo” sull’infallibilità dell’esercito americano è fiero sostenitore. (voto 6) Product placement evidente per Pepsi.
Sempre partendo da un “personaggio” reale, tale Tom Brown Jr. che millantava di essere esperto di analisi delle tracce e di sopravvivenza, Friedkin prende lo spunto per raccontare in The hunted (2003) lo scontro tra un maestro di tali discipline (Tommy Lee Jones) e del discepolo (Benicio Del Toro). Entrambi dopo le esperienze traumatiche di guerra vivono solitari nella natura. Il primo lavorando per il WWF si è isolato in Canada tra cervi e neve per combattere i bracconieri e i cacciatori di frodo. Il secondo invece agisce nei boschi dell’Oregon, ma dopo che in guerra fu impiegato per uccidere carnefici (lo vediamo all’inizio in azione in Kossovo mentre sgozza un generale con tendenze genocide…), “una volta che hai imparato ad uccidere, il difficile è imparare a smettere” come dice una battuta del film. Infatti Del Toro interpreta un feroce killer-giustiziere che solo il “maestro” è in grado di fermare. Purtroppo il film sconta una trama semplicistica e poco curata, in cui il “duello” tra i due è più fisico che psicologico e ben lontano dell’intensità di quello, ad esempio, di Heat di Michael Mann. Friedkin a parole punta in alto “incarna temi su cui continuo a tornare: la colpa, l’ossessione, il crollo dell’ordine sociale, il conflitto interiore per le proprie azioni” dichiara nel già citato Il buio e la luce, la sua autobiografia. In verità è un film tutto d’azione che cerca di adeguarsi ai nuovi linguaggi cinematografici con tanto di arti marziali (filippine) girate come in un film della nuova ondata honkonghese e paesaggi di fascino selvaggio. Sembra quasi che Friedkin non si senta a suo agio e vergognoso di riproporre il suo cinema di genere “classico” che tanto gli ha dato (e ci ha dato) in passato. (voto 5,5). Ford, Motorola e un’insistita pubblicità per il programma condotto da Jeff Gianola, Koin, sulla CBS, come product placement.
Con Bug (2006) “commedia nerissima, una folie à deux dove le allucinazioni passano da una persona all’altra in una specie di psicosi condivisa. Era fatta per urtare il pubblico e sfidarne le aspettative” scritta da Tracy Letts e rappresentata a Londra e poi successo off-Broadway, Friedkin torna ad un cinema che gli è più congeniale “fu un ritorno all’essenziale: pochi attori, una troupe piccola ed efficiente, nessun effetto speciale; solo una storia ben congegnata che non svela i suoi misteri. Era esattamente il tipo di film che volevo, e che vorrei continuare a fare nel tempo che mi rimane.” Ed infatti il risultato è buono, una discesa nella follia della paranoia complottista in cui una ragazza indebolita psicologicamente dalla scomparsa del figlio e da un ex-marito stalker e violenta, incontra un viandante che la affascina con le sue storie di ex-soldato in Iraq e degli esperimenti a cui è stato sottoposto da medici militari. Convinto di avere inserito dentro di sé uova di insetti e cimici che trasmettono codici e informazioni su di lui, trascina anche la ragazza (Ashley Judd, bravissima) in un delirio autodistruttivo. Friedkin evita la mera trasposizione teatrale dando sostanza e potenza alle scene con corpi martoriati, horror d’atmosfera e un finale in una stanza foderata di stagnola con un colore azzurrognolo che ricorda la visionarietà di un Shinya Tuskamoto e lambendo la videoarte. Un film sottovalutato e anticipatore di derive odierne. (voto 6,5). Vodka White Blossom e Sony nel parco product placement del film. (Virgolettati da William Friedkin, Il buio e la luce, Bompiani).
“Letts aveva scritto Killer Joe con una rabbia che aveva radici profonde. Dopo varie letture sceniche e una gestazione di tre anni, era stato rappresentato per la prima volta nel 1993. Una delle prime recensioni parlò di “un orrido lunapark di brutalità e degradazione, che ti lascia addosso una sensazione di sporcizia”. Questo scrive William Friedkin (nell’autobiografia Il buio e la luce, Bompiani editore, trad. Alberto Pezzotta) ricordando la genesi di Killer Joe (2011) suo penultimo film di fiction. Ancora una volta, come per Bug, il regista si affida ai testi del commediografo Tracy Letts e riesce ad adeguare il suo cinema duro e realistico all’atmosfera di perversione e malvagità che pervade il testo. Un giovane, Chris Smith, si è indebitato con la mala ed è minacciato fisicamente se non restituisce i soldi che deve. Allora venendo a conoscenza che la madre, separata dal padre, ha stipulato un’assicurazione sulla vita a favore della sorella Dottie, si mette d’accordo con il padre e con la matrigna per assoldare un killer, Joe appunto, per far uccidere la vera madre. Joe naturalmente vuole però i soldi in anticipo, soldi che i tre non hanno e allora chiede come “caparra” la verginità della minorenne Dottie. I tre non si fanno scrupoli nel concederla. Comincia così un intreccio di rapporti degenerati tra Joe e Dottie, il padre e l’attuale compagna (che lo tradisce con tal Tex che avrà un ruolo fondamentale nel proseguo della trama), Chris, Dottie e Joe. Secondo Friedkin il film è una commedia nera, in realtà di ironico c’è poco, principalmente è un pessimistico sguardo su un’umanità malata e che ha abbandonato la ragione per gli istinti bestiali. Mr. Hyde che prende il sopravvento sul dottor Jekyll definitivamente. Il cast messo assieme da Friedkin (che in fatto di trasformare attori semisconosciuti in icone memorabili è maestro) è fantastico. Da un Matthew McConaughey (Joe) bello e malvagio, ad una Juno Temple (Dottie) ninfetta nuda e inquieta, Emil Hirsch (Chris Smith) di normalità paranoica, Thomas Haden Church (il padre) imponente e remissivo, fino alla perversa e sexy Gina Gershon (che si presenta con il pelo di fuori ad inizio film e finisce ad essere costretta ad un blow job assai realistico con una coscia di pollo tra le gambe di killer Joe, scena memorabile nella sua sadica crudeltà). “Con Bug e Killer Joe Billy entra nel suo periodo giapponese. Nel senso dei dipinti giapponesi, ovvero qualcosa di estremamente semplice, giusto poche linee, e con queste poche linee costruisce un’incredibile complessità. Quello che penso abbia capito come filmaker è che non c’è necessariamente bisogno di andare nella Repubblica Domenicana per fare qualcosa di grandioso (il riferimento è a Il salario della paura ndr). In realtà si può restare in studio a girare la propria storia e ottenere lo stesso una grande opera.” Come dice il critico americano Samuel Blumenfeld nel documentario Friedkin Uncut di Francesco Zippel. (voto 7+) (Budweiser principale product placement e poi Corvette)
La carriera di Friedkin si conclude con un documentario, The devil and father Amorth (2017) che il regista ha presentato a Venezia e con cui ritorna 44 anni dopo a parlare di esorcismo (ammettendo di aver girato L'esorcista senza mai aver assistito dal vero ad un esorcismo, ha contattato a Roma padre Amorth, un esorcista ufficiale del Vaticano, a cui ha chiesto di poter filmarlo in azione, cosa che fa e che ci mostra, assieme ad alcune interviste a psichiatri e ad altri prelati per discutere su quanto ci possa essere di vero o meno sulla possessione diabolica) e con il ritorno al genere processuale con il recente L'ammutinamento del Caine (2023), prima della sua dolorosa scomparsa.