In concorso alla 47^ Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro l’importante e quanto mai attuale documentario Qu’ils reposent en revolte (des figures de guerre I) del poeta ed attivista politico francese Sylvain George.
Il regista si infiltra con la sua videocamera tra i sans papiers nella periferia di Parigi e soprattutto a Calais dove si ritrovano centinaia di disperati che sperano di attraversare la Manica per raggiungere l’Inghilterra.
Sono rifugiati africani, profughi di Libia e Afghanistan perennemente in fuga dalla miseria e dalla polizia alla ricerca di un lavoro e una regolarizzazione.
Il film inizia mostrando una scritta su di un muro “Fuck Sarkozy”, uno slogan che è tutto un programma. Ma sotto accusa non vi è solo il primo ministro francese, vi sono anche il ministro Besson e pure, tra gli altri, i nostri Rocco Buttiglione e Umberto Bossi per le loro affermazioni antilibertarie. Ma in generale il dito è puntato su tutta l’Europa accusata di essere razzista da questi disperati che chiedono solo di poter vivere. Costretti alla lontananza dalle proprie radici e dai propri cari passano le notti in tende, lungo la strada, in case abbandonate tra i rifiuti. Mangiano quel poco che trovano, quando lo trovano, sempre in attesa di un camion, un treno, una nave su cui riuscire a infilarsi clandestinamente per continuare una fuga verso una speranza incerta. Si rovinano le impronte digitali con lamette e se le bruciano con chiodi roventi per non essere riconosciuti e incarcerati dalla polizia o, peggio, rimandati al paese da cui fuggono.
Due ore e mezzo di filmato che dovrebbe essere mostrato a tutti i sostenitori delle semplicistiche soluzioni di forza e alle facili frasi populiste contro gli stranieri senza conoscere veramente i problemi e senza scindere disperazione e sopravvivenza dalla delinquenza organizzata.
La scelta stilistica del regista è quella di un bianco e nero con molto contrasto e ai dettagli sui corpi martoriati degli extracomunitari alterna panoramiche di desolate periferie e sporche banchine portuali al di là delle quali vengono proiettate le aspettative di questi poveracci per una vita migliore.
Il documentario in questione dimostra come anche questa forma di cinema possa essere utilizzata per il product placement di marche. Anche se in questo caso specifico probabilmente tutto è casualmente presente nelle immagini, la presenza di numerosissime brand dimostra come il filone potrebbe essere sfruttato commercialmente in questo senso.
I rifugiati indossano soprattutto capi di note firme sportive: scarpe e tute ADIDAS, cuffie REEBOK, ciabatte FILA, felpe ALL STAR. Si vedono anche sporte di mercati a basso prezzo come LIDL e H&M. I mezzi di comunicazione presenti alle proteste dei nostri sono INTER, RTL soprattutto e i fotografi arrivano armati di CANON. I mezzi di trasporto che rappresentano le speranze di fuga per i nostri riportano brand come MATTHEWS, NICH EUROPEAN, NORD LITTORAL sui camion, SEAFRANCE sulla nave e, naturalmente, SNCF sui treni. I mezzi di distruzione dell’accampamento denominato “la giungla” su ordine ministeriale sono ruspe CATERPILLAR, gru VOLVO e trattori KOMATSU.
Presuntuoso, incoerente, tedioso. Headshots di Lawrence Tooley ha tutti i difetti dei film di esordienti cresciuti negli ambienti artistici chic (in questo caso Tooley è uno studente americano trasferitosi nella Berlino del “fermento artistico” degli anni 2000).
Protagonista è Marianne una fotografa di moda. Durante un servizio fotografico una modella che non mangia da tre giorni (l’anoressia il grande problema dei nostri giorni…) sviene e muore sul set. L’episodio è causa di malessere interiore per Marianne che si rende conto di non essersi interessata della modella al momento dello svenimento ma di aver pensato solamente che la sua scomparsa significava avere una modella in meno. In verità il rovello interiore (addirittura si considera causa della morte essa stessa dicendo alla madre “ho ucciso una donna”) è solo a parole perché non è poi portato avanti con scelte registiche particolari. Tanto è vero che Marianne continua la sua incasinata vita con il marito (uno scrittore di scarso successo che pensa di essere un genio e rifiuta una cattedra perché non accetta compromessi…) che tradisce con Vincent anche se il marito le dice “ma Vincent è solo una tua proiezione interiore”. Sarà ma Marianne con Vincent ci fa cose non molto interiori. Poi però si scopre incinta e torna dal marito che non la vuole più (adesso vuoi tornare con me solo perché ti rifiuto!) dicendogli che lo ama. Rigettata da casa torna a fare cose con Vincent che pure è sposato con una sua amica. Durante una cena rivelatrice tra i tre confessa all’amica di tradirla con il marito e questa invece di incazzarsi propone un menage à trois in nome dell’amore libero. Poi però arriva dall’America il padre di Marianne che dall’alto della sua saggezza e rimembrando un passato da ex sessantottino pontifica: “eravamo così impegnati a liberare l’amore che alla fine ci è sfuggito del tutto”. Finale “à la Antonioni” con la fotografa smarrita che corre tra vicoli e sotto volte in una città vuota.
Senza un’idea coerente di regia con dialoghi esistenziali vuoti, il film si trascina senza creare alcun interesse allo spettatore con l’autore che cerca di far vedere quanto è figo inquadrando solo le zone di Berlino in cui vi sono graffiti di giovani artisti, vestendo la protagonista in modo molto “avanti” con minigonne e giarrettiere in vista abbinate a scarpe ADIDAS e un orrendo vestito “all’avanguardia” formato da enormi bolle rosse, giocando con immagini video e scimmiottando la video arte.
Riesce anche a fare la morale (lui, studente americano approdato in Europa da una manciata d’anni!) ai turisti che non conoscono la storia di Berlino…
A volte l’autoproduzione è dannosa perché non c’è nessuno a dirti quanto la stai facendo fuori dal vaso.
Gli strumenti di lavoro di Marianne sono product placement, la NIKON con cui fotografa e il computer APPLE con cui rielabora le immagini.