IL GRANDE GATSBY (2013) – Baz Luhrmann
Baz Luhrmann dopo aver già ridotto a pop giovanilistico la prosa di Shakespeare in “Romeo+Giulietta”, dopo aver ridotto il promettente drammone paesaggistico “Australia” ad un’esibizione di bicipiti e pettorali del pompato Hugh “Wolverine” Jackman, ci propina la summa della sua “arte” in un incontenibile profusione di eccessi visivi.
Feste che sono orge di suoni e colori, corpi lucidi e neri che danzano jazz, colori sparati, tonnellate di paillettes, specchi e superfici riflettenti talmente brillanti da accecare, esotismo pacchiano, suonatori di tromba nei posti più improbabili.
Il trionfo del kitsch e dell’eccesso patinato.
Le immagini de “Il grande Gatsby” versione 2013 sono noiosamente meravigliose.
Una versione Disneyworld del dramma esistenziale di Fitzgerald, un’estetica destinata a piacere a drag queen e casalinghe depresse (pur non avendo nulla contro i gusti di queste categorie dell’umana specie).
E’ un musical senza canzoni (non per nulla le operazioni più accettabili del nostro sono due film del genere, “Moulin Rouge” e “Ballroom”).
Quello che manca è Fitzgerald le cui parole sono retrocesse a frasi da bacio perugina. Quello che manca sono i sentimenti, le passioni, la riproduzione credibile di una intima realtà.
E pensare che il remake del film del 1974 di Jack Clayton (esiste anche un’altra versione del 1949 con Alan Ladd ma il riferimento è il film interpretato da Robert Redford) segue quasi pedissequamente la sceneggiatura di Francis Ford Coppola che avrebbe meritato a mio modo di vedere di apparire tra gli scrittori del film…
Le differenze narrative sono minime (l’unica scena che ha una differenza di senso è quella in cui Daisy propone di andare in città per rompere l’imbarazzo dovuto là dalla presenza della figlia che fa riflettere Gatsby e qui dal tentativo di svelamento da parte dello stesso Gatsby del suo amore per Daisy), ma dove nell’opera del 1974 si trovavano reali rappresentazioni di passioni e dolori appartenenti al mondo analizzato da Fitzgerald, in quest’ultima tutto è falso, non credibile.
“Un grande circo” come commenta ad un certo punto Tom.
Vi è più verità ed intensità in due minuti di monologo di Karen Black nel Gatsby 1974 che in tutto il film del 2013.
L’unico momento in cui questo muro di plastica propinatoci viene infranto è nel momento in cui si nota una delle poche differenze di scelta narrativa che vi sono tra la versione Luhrmann e quella Clayton. Quando lo scontro tra Gatsby e Tom è al culmine nel caso di Redford questo si trattiene stringendo i pugni mentre Di Caprio (dimostrando finalmente la sua bravura interpretativa) si getta sull’antagonista manifestando una mancanza di controllo che rompe l’idilliaca immagine che ha di lui Daisy.
Per il resto è tutto falso. E solo perché l’unica cosa che preme a Luhrmann è di creare una vertigine visiva nei confronti dello spettatore al di là del bene e del male, che riusciamo a passare sopra ad una rappresentazione irritante del mondo dei poveri, dei bordelli, della guerra, della gente di colore, ridotti tutti a nulla più che ad una cartolina.
Da questo punto di vista è perfetto il volto di Di Caprio, quel suo irreale viso di bambino invecchiato senza prima maturare.
A dispetto del roboante 3D tutto è bidimensionale e superficiale. Il regista adotta sempre la soluzione più facile a danno della suspence e dell’atmosfera.
Insomma a noi sembra che Baz ed il suo cinema siano solo un grosso bluff.
Product placement dominato dal MOET CHANDON che scorre a fiumi ed è ringraziato nel finale come PRADA e MIU MIU artefici degli sfarzosi costumi d’epoca.