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CINEMA
22 Aprile 2025 - 18:12

DIARIO VISIVO (Rivedere Woody Allen oggi)

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Woody Allen
DIARIO VISIVO (Rivedere Woody Allen oggi)

Tra i primi film di Woody Allen, quelli macchiettistici e improntati principalmente sulle sue battute, quei film di un comico ancora acerbo come regista e ancora alla ricerca di una strada che poi troverà diventando uno degli autori più conosciuti al mondo, Il dormiglione (1973) non è a mio parere il più brillante. Non è divertente quanto scomposto come Prendi i soldi e scappa e Il dittatore dello stato di Bananas, anche se meglio del film a “episodi” Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso… dove colpi di genio erano alternati a banalità da barzelletta. Il dormiglione è un film che guarda alla fantascienza (dopo arriverà la Storia con Amore e guerra) tra parodia e omaggio, per portare nel genere il suo umorismo con i suoi temi (l’amore o meglio il sesso, la politica, lo spaesamento dell’uomo “comune”). Uomo degli anni settanta (è stato ibernato dopo essere andato in ospedale) il protagonista si ritrova ad essere riportato alla vita duecento anni dopo in una società da “Grande Fratello” con un dittatore e un gruppo ribelle che vuole combatterlo. Lui si ritrova a cercare di scappare da chi vorrebbe condizionarne il cervello, prima mimetizzandosi come robot seminando panico nella società (è la parte comica “classica” quella delle comiche del muto e di Jerry Lewis) per poi incontrare una Diane Keaton, ricalcata sulle ricche snob che si credono artiste e non vogliono sapere nulla dei problemi politici, e con lei ritrovarsi in fuga dalla polizia del potere. Dopo varie traverse la donna abbraccerà la causa rivoluzionaria e lui verrà catturato ma poi liberato dai ribelli per sconfiggere il dittatore. Per farlo dovranno recuperarne il naso, unica parte del corpo rimasto dell’uomo dopo un incidente, prima che con le cellule prese da quello venga clonato in un nuovo dittatore uguale al precedente. Quindi i topoi fantascientifici sono ben conosciuti da Allen ma le gag non sono tutte all’altezza. Alcune invenzioni sono però memorabili come l’Orgasmatic modulo tecnologico in cui ci si rinchiude per far sesso perché tutti sono diventati frigidi o impotenti “tranne gli italiani, sarà qualcosa che c’è negli spaghetti…” oppure la palla che sfregata fa effetto droga o, infine, i suoi commenti sui “reperti degli anni Settanta” richiestigli in un interrogatorio (tra cui una foto di Nixon). “Woody vira verso lo slapstick in questo sciocco ma coinvolgente racconto (…) Tipica combinazione di Allen di grandi battute e sciocchezze con un maggior numero di gag visive del solito” (Leonard Maltin nel suo dizionario con addirittura 3 asterischi e mezzo su 4). Anche a Kezich piacque “Nessun appassionato del cinema comico vorrà perdere questo straordinario exploit di Allen, un professore d’impertinenza che aggiorna all’era dei Peanuts le classiche lezioni di Chaplin e di Groucho Marx” (Il Millefilm). Più flebili i commenti postumi al film di Mereghetti “Una storia costruita sul modello dei vecchi film comici muti, con un protagonista un po’ a disagio.” e di Morandini “4° film di Woody Allen regista, è il più politico, ma anche il meno armonico: squilibrato nella trama, raccontata a parole più che in immagini; diseguale nei dialoghi e nelle gag comiche.” (entrambi danno ** e mezzo), ciò potrebbe dimostrare come l’impatto positivo dei primi film di Allen dovuto alla loro sgangherata originalità, non regga più di tanto al tempo. (Voto 6) Futuristico ma non per quanto riguarda il product placement che è del tutto odierno, birra Miller e Mac Donalds. Trattandoli invece come vintage vi sono Volkswagen (un vecchio maggiolino) e il New York Times di cui viene ritrovata una vecchia copia che riporta la notizia della nascita di due figli del papa!

Con Io e Annie (1977) il cinema di Woody Allen diventa “adulto”, è questo il film che la critica unanimemente o quasi definisce come il suo capolavoro. Con questo film finisce la fase goliardico farsesca delle sue prime opere (geniali nelle folgoranti battute in cui Allen è da sempre insuperabile), piuttosto “scoordinate” cinematograficamente e fondamentalmente film costruiti su sketch messi assieme per formare un lungometraggio. Rivedendo Io e Annie oggi un senso di “sorpassato” si sente lungo il film. Intanto non è ancora una commedia ben articolata e compiuta come lo sarà Manhattan e la frammentarietà dei primi film ancora residualmente resta. Poi le battute, allora geniali, ora sanno di già sentito, perché per assurdo erano talmente memorabili ed esilaranti allora che sono diventate di dominio comune ed ora suonano come barzellette già sentite! (Una su tutte “non mi iscriverei mai ad un club di cui io faccio parte”). Tutto l’armamentario cinematograficamente bizzarro che il nostro sfoggia e che allora era sicuramente un’innovazione (il protagonista che parla direttamente al pubblico, la presenza di McLuhan lui-meme che interviene mentre un palloso saputello discetta sui suoi scritti, i compagni di scuola di Allen che, ancora bambini, raccontano cosa sono diventati, financo una sequenza di animazione con Woody cartoon) ora rimane sicuramente divertente ma non più ingegnoso come allora era. Resta in tutto questo la New York di Allen, la nevrosi del personaggio principale (Allen stesso che interpreta il comico ebreo Alvy Singer dalle mille insicurezze e idiosincrasie) e il suo rapporto “difficile” con una Diane Keaton eccezionale nel dipingere la fidanzata Annie Hall (un personaggio che diventerà esemplare per decine di altre figure cinematografiche di donne moderne, indipendenti e difficili da irregimentare), stupenda nella sua giovanile esuberanza (completamente diversa dalla Diane Keaton “matura” che troveremo in film successivi) e incantevole quando canta in giacca nera e rosa rossa all’occhiello, alcune sequenze esilaranti come quella della coda al cinema, la prestazione personale di un Allen ancora all’apice attoriale. Insomma, comunque tanta roba. (voto 7).

Interiors (1978) è il film più rigorosamente bergmaniano ed “europeo” di Allen. Privato di ogni ironia e sarcasmo con cui solitamente Allen infarcisce i dialoghi anche nelle commedie “serie”, ne esce un’opera drammatica, pessimista e fatalista. Il regista non rinuncia ai dialoghi, anche ridondanti e un po’ eccessivi, per descrivere una famiglia di intellettuali borghesi formata da un padre che a più di sessant’anni si separa dalla moglie, la moglie che entra in crisi depressiva e le tre figlie che per un motivo o per l’altro sono insoddisfatte della loro vita. Rivisto oggi si fa fatica in alcuni momenti ad assecondare alcune lamentele esistenziali (soprattutto quelle della figlia Joey a cui non va bene nulla di ciò che fa ed è cresciuta nell’invidia della sorella poetessa, ad un certo punto ti viene voglia di dirle che c’è gente che muore di fame e vive in povertà che si metterebbe tristemente a ridere dei suoi problemi…) e alcuni rovelli di frustrazioni artistiche così private dell’ironia alleniana. Dove invece il film stupisce è dal lato formale. Protagonisti del film sono gli interni richiamati (con doppio senso) dal titolo (la casa dove vivono una delle figlie e il marito, stupendamente fotografata con luce soft, mezzi toni e arredi eleganti, potrebbe essere la dimora in cui poggiano i vasi dei quadri di Morandi…), la poetica spiaggia bagnata dall’Oceano che ricorda quelle di numerosi film esistenzialistici, i primi piani per cui dobbiamo ancora richiamare Bergman (soprattutto la meravigliosa scena finale con i tre volti delle tre figlie allineati non può evitare il paragone). Poi le interpretazioni misurate e precise tra cui spiccano Diane Keaton, Maureen Stapleton e una fantastica Geraldine Page. “Interiors è un film di ardita concezione e di raffinata esecuzione, che nasce però da un partito preso: la decisione dell’autore di non far ridere (…) nell’interno del nucleo famigliare i rapporti sono strindberghiani” (Kezich). “ Il primo dramma per lo schermo di Woody Allen come sceneggiatore-regista è un Ingmar Bermanesco studio di una famiglia piena di infelicità, frustrazione di uomini e donne; questo dramma di vite angosciate non è per tutti i gusti, ma estremamente ben fatto” (Leonard Matlin) (voto 6/7) Product placement solo per Coca Cola di cui si vedono due lattine (che stonano con il preciso e geometrico arredamento delle case, metafora della rigidità che diventa una gabbia in cui si rinchiude la psiche della madre).

Partendo da Shakespeare e cercando di intraprendere le strade percorse dall’amato Bergman, con il suo solito spirito autoironico, Woody Allen con Una commedia sexy in una notte di mezza estate (1982) entra smaccatamente nella pochade più che nel rapporto personale uomo-donna. Si ritaglia il ruolo dello svampito protagonista, inventore da strapazzo, un Leonardo da Vinci di serie B che cerca di volare e creare macchine per vedere il passato ed il futuro (questa roba è tutta di Allen lui-meme…), che organizza un party-arcadico (tutto fragole, natura e filosofia) nella sua casa di campagna con la moglie (con cui ha difficoltà di rapporti sessuali). Dietro tanto filosofeggiare e parlare di sessualità vi sono interessi attrattivi tra le tre coppie presenti che porteranno a “scambi di coppia” più o meno nascosti. In particolare Andrew (Allen) reincontra la donna che ha sempre amato fin da quando erano ragazzini ma a cui non era mai stato in grado di dichiararsi in gioventù. La donna è Ariel, interpretata da Mia Farrow che “fa il suo ingresso nel cinema di Woody Allen come una fata, luminosa, eterea, ma non per questo asessuata. Anzi, Ariel Weymouth, apparizione capace di scombussolare gli ormoni maschili e rimescolare le coppie di Una commedia sexy in una notte di mezza estate, è libera, impudica, serenamente disponibile. Dimenticare il caschetto minimal che la trasformò in una star e fece il giro del mondo con Rosmary’s baby: Mia Farrow per Woody Allen è incarnato trasparente, ammasso di capelli, tenerezza, senso di stabilità anche quando interpreta personaggi instabili.” Scrive Emanuela Martini nel suo articolo L’uomo che amava le donne. Woody Allen femminista su Cineforum n. 0 Nuova Serie Dicembre 2020. Spesso in bilico tra serietà seppur sarcastica e ironia leggera non è tra i migliori film di Allen anche se spesso ci si diverte. (voto 6)

Di ben altro spessore e tutt’ora non solo godibile, ma addirittura ancora più apprezzabile perché a distanza di quarant’anni se ne comprendono le trovate anticipatrici, è Zelig (1983). Non che allora non abbia avuto successo, ne ebbe talmente tanto che il titolo e il nome del personaggio, creato ed interpretato da Woody Allen, sono diventati una parola di uso comune e riconosciuta nei dizionari: Zelig, Individuo dalla personalità multipla, che assimila le caratteristiche dell'ambiente in cui di volta in volta si trova. (Oxford Languages). Ma rivisto oggi, l’epopea di Leonard Zelig che si immedesima nei contesti e con le persone con cui si trova cambiando fisicità e personalità (diventa rabbino con i rabbini, colored con i colored, orientale con gli orientali, pellerossa con i pellerossa ecc…), ne mostra la capacità di precorritore dei tempi, ad esempio anticipando tutti i mockumentary che sono stati girati dopo e che ultimamente sono diventati un vero e proprio genere, oppure modificando fotografie e video prima dell’avvento del digitale e, soprattutto, dell’intelligenza artificiale. Allo stesso tempo è capace di omaggiare tutto ciò che c’è stato prima di lui, ovvero il cinema e la società degli anni ’20 coinvolgendo nell’operazione di grandissima abilità e intelligenza anche personalità di spicco che si sono concesse alla macchina cinematografica del regista (Susan Sontag, Irving Howe, Saul Bellow, Bruno Bettelheim, John Morton Blum ecc.). Inoltre riesce a dare una visione della società americana con sarcasmo e lucidità. Un’opinione pubblica capace di volta in volta di odiare, sfruttare, esaltare, idolatrare e di nuovo denigrare per poi ritornare ad incensare Zelig, così come ogni personaggio pubblico negli anni ’20, come negli anni ’80 e come oggi (vedi ad esempio il caso di Trump, colpevole e innocente a seconda se è eletto o non eletto). Ancora Mia Farrow, che interpreta la dottoressa Fletcher che guarisce e poi impalma Zelig, è la coprotagonista e, prendendo sempre dall’articolo di Emanuela Martini sopra citato, ha “un viso che cattura la luce e la riflette, un erotismo incancellabile anche quando nascosto dietro agli occhiali e i tailleur severi della dottoressa Eudora Fletcher”. Scriveva Kezich nella recensione al film raccolta in Il film ’80 (Oscar Mondadori): “Tutto il film è giocato sulla mescolanza di scene vere che sembrano finte e scene finte che sembrano vere, in una ricerca maniacale dell’effetto da <<Movietone>> d’epoca. E’ un <<conte phylosophique>> in cui l’intelligenza ha la meglio sul divertimento, il disagio prevale sulla risata (…) Zelig è già maturo per essere accolto nella storia del cinema Usa come un piccolo classico”. Facile profezia da parte dell’importante critico cinematografico del tempo. (voto 8) Zelig in una delle sue trasformazioni è testimonial per le Camel e per i capi Pendleton (abile product placement) e in un filmato in cui il nostro fa boxe non si può non notare Everlast.

Siamo nel periodo più florido e qualitativamente migliore di Woody Allen. Tra il 1983 e il 1987 inanella un capolavoro dietro l’altro. Il periodo inizia con Zelig di cui abbiamo detto e prosegue con Broadway Danny Rose (1984), un divertentissimo ritratto di un manager teatrale di basso livello (tra i suoi artisti abbiamo un domatore di uccelli, un ballerino di tip tap con una gamba sola, uno xilofonista cieco, un giocoliere senza un braccio, Eddie Clark e il suo pinguino che pattina sul palco vestito da rabbino) che appena riesce a portare al successo un suo rappresentato questo lo lascia per manager più famosi. Woody Allen dà il meglio come attore, probabilmente qui abbiamo la sua performance più scatenata e irresistibile, molto autobiografica, che riporta ai suoi inizi da cabarettista. Il film è allo stesso tempo un omaggio a quel mondo dei teatri di periferia, agli artisti sognatori, magari senza troppo talento ma con tanta voglia di esibirsi e sperare in un minimo di fama che non arriverà mai. L’inizio riprende la trovata del mockumentary in bianco e nero già sperimentata in Zelig: attorno ad un tavolo (al Carnegie Deli di Broadway, principale product placement del film), veri attori comici e veri cabarettisti si stanno raccontando aneddoti e alcuni di questi riguardano proprio Danny Rose. Uno di questi aneddoti costituisce la restante parte del film, come se fosse un racconto per immagini dell’attore che al tavolo lo sta narrando. Danny ha tra le mani un vecchio crooner, grasso e ubriacone, Lou Canova (Nick Apollo Forte, anche lui vero cantante semisconosciuto nella vita reale) che riesce miracolosamente a far ritornare in auge. A complicargli la vita arriva l’amante di Canova (una Mia Farrow mai così esplicitamente provocante sullo schermo) di nome Tina Vitale, che fa impazzire Lou, sposato e con figli. Danny deve “gestirla” fino alla serata più importante per Lou Canova, quella che dovrebbe rilanciarlo definitivamente. La storia si fa complicata perché lei è vedova di un componente della comunità italiana di New York, un criminale probabilmente mafioso. Tina e Danny, per un frainteso, finiscono nei guai e devono cercare di sopravvivere alle minacce della famiglia. Ancora oggi è un film che fa ridere di gusto e contemporaneamente ci fa amare questo piccolo uomo e la sulfurea Tina, fino alla scena di una dolcezza infinta in cui Danny riunisce nel suo appartamento da poveraccio la sua corte dei miracoli (intanto Canova come tutti i precedenti, appena riottenuto un po’ di successo, ha lasciato il manager per uno più famoso) per pasteggiare con tacchino congelato. Ma la sua personalità piena di idiosincrasie, confusione e frenesia riescono a conquistare il cuore di Tina. Allen gira per le amate strade di New York e del New Jersey ritornando allo stile “documentario” di Manhattan. Ricordo le parole perfette di Tullio Kezich in una sua recensione del film: “Inutile dire che il film trae dalle situazioni tutto il potenziale umoristico, con una finezza di tocco resa ancora più lieve dal magico bianco e nero di Gordon Willis. Ne esce il ritratto di un don Chisciotte della Grande Mela, un puro cuore da <<hidalgo>> passato attraverso la saggezza dello chassidismo, che si esprime con l’icasticità folgorante dalla <<comic strip>> o dell’entertainer abituato a sparare una battuta dopo l’altra. Irresistibile, ma c’è dentro qualcosa di più: una serena visione dell’esistenza, uno stoico invito a non odiare nessuno.” (da Il film ’80, Oscar Mondadori)(voto 7/8) Tanti i locali e luoghi ripresi da Allen a New York (il NY Sheraton, il Roosevelt Hospital, il già citato Carnegie Deli e altri) ma anche le marche sono abbondanti. Principalmente Coca Cola, poi una pub di Lucky Strike, la birra Lowenbrau, a Tina chiede un Courvoisier ma le danno per errore un Jack Daniel’s. Poi Bulova, Hertz, Seconal…

Se un soggetto come La rosa purpurea del Cairo (1985) fosse stato concepito da altri autori o registi avrebbe subito la sorte di molti film che hanno un’idea potente alla base (qui inutile ricordarlo un personaggio di un vecchio film che entra nella vita reale), cioè su quell’idea sarebbe stata costruita una trama o romantica o comica che si sarebbe trascinata per la durata della pellicola perché attorno ad una trovata così forte è difficile poi trovare un contorno all’altezza ed evitare la banalizzazione (molti film di Zemeckis, ad esempio, hanno questo problema). Invece Woody Allen riesce, nella breve durata di un’ora e venti, a mettervi dentro tantissime cose tutt’altro che banali. Il contrasto tra la vita di m… condotta da Cecilia (Mia Farrow che si trasforma all’opposto della sua interpretazione di Tina nel film precedente), moglie insoddisfatta di un uomo manesco, disoccupato e nullafacente, e i sogni che scaturiscono dalle visioni dei film al cinema, una vera e propria vita parallela per la sua mente, che entrano in collisione quando uno dei personaggi del film La rosa purpurea del Cairo Tom Baxter (Jeff Daniels chiamato ad un doppio ruolo… ma uguale…) e questo basterebbe per imbastire una lineare storia d’amore e malinconia. Invece Allen su questa esile trama costruisce vari strati alternando comicità, romanticismo, nostalgia e onirismo. Intanto la costruzione doppia d’epoca, il mondo reale con colori tenui e la ricostruzione delle strade e della gente della New York della grande depressione degli anni ’30 del Novecento vs. il mondo artefatto e luccicante della stessa epoca rappresentata sullo schermo da Hollywood. Poi vi è evidenziata la differenza tra realtà con le sue delusioni, difficoltà, il lavoro insopportabile e la mancanza di denaro mentre la vita sullo schermo è fatta di soluzioni facili, parole letterarie, pulizia ed eleganza. Quando Tom scende in sala per il colpo di fulmine verso Cecilia, si trova ad aver a che fare con soldi falsi, “da palcoscenico”, che non riesce a spendere, auto che non vanno in moto semplicemente montandogli in cima e con le donnine di un bordello con cui non sa come muoversi. Anche quando sarà Cecilia ad entrare nella fiction in bianco e nero dentro lo schermo non si troverà a suo agio capendo di dover tornare alla realtà. La parte maggiormente comica del film è lasciata al battibecco tra gli attori del film sullo schermo, che sono consci della sparizione di Tom e bloccati nella loro recitazione perché non hanno più un canovaccio da seguire, e gli spettatori che non si ritrovano nel film che stanno vedendo e cominciano ad interagire con i personaggi. Vi è poi la genialata metacinematografica del doppio, ovvero l’apparizione dell’attore Gil Shepherd, ovvero colui che ha interpretato e dato vita al personaggio di Tom Baxter (sempre Jeff Daniels naturalmente), che rappresenta la parte reale dell’individuo che si sdoppia, appunto, e scontra con quella fittizia, anche per l’amore di Cecilia. Quando Cecilia sceglie di tornare alla realtà in verità pensa di entrare in quella, a suo modo fittizia, dell’ambiente hollywoodiano seguendo Shepherd che però la lascia sola. Non le resterà che tornare ai sogni dello schermo e alle danze di Ginger Rogers e Fred Astaire “Cheek to cheek”. Nel film non recita Allen, forse perché la sua comicità nevrotica rischierebbe di dare modernità di tempi e argomenti che potevano rompere il perfetto equilibrio del film, forse perché veniva dalla sua performance “definitiva” quella dell’interpretazione di Danny Rose, l’esatto specchio di se stesso. Emanuela Martini dichiara circa il ruolo di Mia Farrow: “(Allen ndr) le ha dato la parte più magica di tutto il suo cinema: Cecilia, la ragazza che con il suo sguardo riesce ad attrarre di qua dallo schermo, nella vita vera, l’eroe di un film, e che nel salotto del film, poi, riesce a entrare.” (voto 8)

Hannah e le sue sorelle (1986) fa parte del Woody Allen che guarda a Bergman, il regista-cinefilo che ama il cinema europeo. E’ la storia di Hannah (Mia Farrow) e delle sorelle Lee (Barbara Hershey) e Holly (Dianne West). La prima è quella che ha avuto successo, ha avuto un primo marito Mickey (Woody Allen) con cui ha ancora ottimi rapporti, un secondo marito ricco e piacente Elliot (Michael Caine) ed è l’unica che ottiene regolarmente ruoli da protagonista a teatro. Le altre due sono eterne insolute. Lee ha bisogno di un pigmalione che la supporti (e lo trova nel dispotico e asociale pittore Frederick, praticamente un personaggio traslato direttamente da L’ora del lupo di Bergman interpretato qui come allora da Max Von Sydow) ed è un’eterna studentessa immatura con un passato da alcolizzata che sta per iniziare una storia con Elliot, il marito di Hannah. Holly, cocainomane che cerca di smettere, è un’attrice che da tempo non riesce ad ottenere parti e si è data alla cucina per guadagnare qualcosa. Ma è Hannah ad aiutarla prestandole continuamente soldi, ed è sempre Hannah ad aiutare la madre (anche lei alcolizzata), a caricarsi della cura dei figli, ad organizzare cene di famiglia, a supportare psicologicamente l’ex-marito Mickey addirittura spingendolo tra le braccia della sorella Holly. Proprio la “perfezione” di Hannah è causa (e scusa) delle insicurezze delle altre (e anche dei suoi mariti) che non si sentono in grado di essere alla sua altezza. Uno dei migliori script di sempre di Allen che è sempre dalla parte delle fragilità e delle debolezze umane costruendo rapporti tra uomini e donne con la complessità dei dialoghi che guardano a Cechov e Bergman, ma con l’ironia tutta di Allen. E’ anche un atto d’amore per le donne protagoniste per cui si spinge a delineare una psicologia tutt’altro che banale. Citiamo volentieri ancora Emanuela Martini che nell’articolo già citato su Cineforum Nuova Serie n. 0 scrive: “Hannah e le sue sorelle è ovviamente il film femminile di Allen (e uno dei suoi capolavori), dove Eliot, Mickey e Frederick non possono far altro che ruotare intorno allo splendore, agli umori, alle scelte di Hannah, Lee e Holly, domestiche, umorali, svaporate, che custodiscono la vita, o la reinventano o cercano finalmente di penetrarvi attraverso gli strappi prodotti dal Fato.” (voto 7/8). Sheraton hotel e altri luoghi newyorchesi fanno parte del product placement del film che per altro prevede anche Hellman’s Mayonnaise e birra Heineken.

“Il luogo è Rockaway. Il tempo è la mia infanzia”, Woody Allen classe 1936 racconta in Radio days (1987), episodi legati alla sua infanzia e ai tempi in cui ancora la televisione era agli albori e la radio faceva da collante famigliare. Ambientato nella sua New York nell’ambiente ebraico racchiude episodi divertenti famigliari e non, comunque legati alla radio e ai suoi protagonisti. Due ladri vincono un premio rispondendo al telefono nell’appartamento che stanno svaligiando e indovinando un quiz musicale; la zia zitella, che ha finalmente un appuntamento, nel momento delle avance in auto vede il compagno scappare terrorizzato dal programma radiofonico di Orson Welles sui marziani;  lo zio furente perché i vicini di casa “comunisti” tengono la radio a volume altissimo il giorno del Shabbat si precipita da loro e torna convinto che la lotta operaia sia più importante della religione. Poi vi è il richiamo a vari programmi radiofonici, drammatici, musicali, comici, sportivi. In uno, “Leggende dello sport” si immagina che un lanciatore di baseball continui a lanciare nonostante perda prima una gamba, poi un braccio e infine pure la vista; in un altro un ventriloquo si esibisce per… radio (!?). Ma vi è una storia principale che riguarda una “star” della radio, interpretata da Mia Farrow, di cui si segue l’ascesa cominciata quando vendeva sigarette e… altro in un nightclub gestito da un gangster. Il film è pieno di questi aneddoti e storielle, Allen ormai più che sulle battute fulminanti gioca sulle situazioni e infatti l’opera col tempo è invecchiata molto meglio di altre sue pellicole che ne avevano fatto scoprire il talento comico più verbale che visivo. Anche la regia e la fotografia, la scelta cromatica è meravigliosa tra l’antico e il sognante, sono decisamente curate ed eleganti. E’ l’unico film in cui le due attrici e mogli “storiche” di Allen appaiono insieme (la Keaton ha una breve apparizione come cantante) (voto 7,5). Product placement per Camel che appare con un’enorme pubblicità su un palazzo, sono le sigarette vendute dalla Farrow e vengono richieste specificamente, ma anche Chesterfield e Lucky Strike sono citate. L’altro importante brand, presentato nella sua versione vintage, è la Pepsi che si vede un po’ ovunque.

Woody Allen è sempre stato voglioso di mettere nel suo cinema quello che ha amato nel cinema degli autori che ammirava. Il “suo” cinema è quello con i protagonisti un po’ sfigatelli, ipocondriaci e dal linguaggio tagliente (se stesso in pratica) che si mischia con l’umorismo ebraico e a battute geniali. Il cinema che tutti i cinefili conoscono e che hanno amato. Poi vi è l’altra anima, quella dell’ammiratore di Bergman e del cinema d’autore europeo e quello amante del cinema classico hollywoodiano e fan di Hitchcock. Dentro a Crimini e misfatti (1989) vi è un po’ di tutto questo. In pratica il film è diviso in due, due storie di tradimento di coppia o tentativo di… Nella prima protagonista è Martin Landau, l’oculista ebreo Judah Rosenthal, che da anni ha una relazione con Dolores (Anjelica Huston) la quale sta diventando invadente e sta mettendo in pericolo sia la sua vita famigliare che quella professionale (minaccia di rilevare alcune attività non proprio legali del dottore). Judah ha un fratello che è un malavitoso e, per risolvergli il problema, fa uccidere Dolores. Quindi una prima parte con delitto, guardando ad Hitchcock, ma con rovelli psicologici (di Rosenthal) e accusa al cinismo e all’ipocrisia borghese tipici di Bergman (l’ammirazione per il cinema del maestro svedese è dimostrata anche dalla presenza, come direttore della fotografia, di Sven Nyqvist). L’altra storia riguarda invece il personaggio del documentarista sfigato Cliff (Woody Allen), ammiratore dell’arte “vera” e odiatore invece del cognato famoso, tipico gradasso che usa la cultura spettacolarizzandola per far soldi. Cliff trova nella regista televisiva Halley Reed (ancora Mia Farrow) un’anima gemella e se ne innamora. Lui, sposato e non capito dalla moglie che lo tratta da uomo misero nei confronti del fratello di lei ricco e famoso, vorrebbe una nuova vita con Halley ma finirà che lei proprio con il cognato finirà ad andare a letto, e la faccia del costernatissimo Allen davanti a tale “mostruoso” accoppiamento vale tutto il film. Questa seconda parte è più tipicamente woodyalleniana con gli omaggi nostalgici al cinema hollywoodiano che troviamo in tante sue opere. In particolare quando Cliff e la nipotina vanno al cinema a vedere classici del cinema, tramite i quali riesce a commentare quello che succede nel proprio di film in un gioco metacinematografico e cinefilo. Bisogna dire che, però, queste varie anime nell’arte di Allen non si amalgamano sempre perfettamente e non si raggiunge la perfezione di altre sue opere precedenti. (voto 6,5) Il Glen Grant si accompagna a Cinzano e Bacardi come product placement che si affianca alle praline regalate da Halley a Cliff. Poi un distributore Shell e la solita Pepsi.

Stefano Barbacini

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