Filo rosso o filo blu? Se tagli quello sbagliato la bomba esplode e 1200 innocenti moriranno, l’altro la disinnesca. L’intero thriller Juggernaut (1974) di Richard Lester è costruito per arrivare a questo drammatico finale (che poi diventerà un classico in tutti i film dove c’è una bomba da disinnescare). La nave da crociera Britannic parte con quel numero di passeggeri da trasportare. Tutto inizia nel migliore dei modi, il capitano Omar Shariff ha con sé l’amante Shirley Knight, sulla nave vi sono anche la moglie e i figli del capo della polizia Ian Holm e il marinaio Roy Kinnear che fa da intrattenitore per far divertire la gente. Primo problema il tempo peggiora e gran parte dei passeggeri soffre di mal di mare, primo indizio di come la giornata volge al peggio. Poi arriva la telefonata di Juggernaut, soprannome che si è dato un ricattatore esperto di bombe che vuole 500 000 sterline per non far esplodere sette bidoni-bomba che si trovano sulla nave. Entrano così in scena Anthony Hopkins a capo della sicurezza e il duo di esperti artificieri Richard Harris e David Hemmings che vengono subito inviati sulla nave: hanno 36 ore per disinnescare tutte le bombe se non si vuole pagare il riscatto. Harris è Anthony Fallon, sbruffone, cinico e sarcastico ma intrepido e coraggioso, disponibile a mettere a rischio la sua vita per salvare le altre. Succedono incidenti, la gente è terrorizzata, il povero Kinnear cerca pateticamente di mantenere un po’ di divertimento organizzando una serata danzante disastrosa, qualcuno morirà, la caccia a Juggernaut da parte della polizia avrà successo ma… ma c’è da tagliare quel maledetto filo, quello rosso o quello blu? Classico film di suspence e adrenalina con un cast importante (ho citato apposta gli attori più conosciuti), sicuramente un intrattenimento ben congeniato e ben girato. Lester in un’intervista a Steven Soderbergh parlando della sua tecnica cinematografica particolare del giovane regista dichiarò: “sarebbe interessante applicare questa tecnica con una traccia un po’ più convenzionale. Una storia con un conto alla rovescia, per esempio. Se girate un film dove si dice che voi avete trantasei ore per trovare l’assassino o che qualcosa sta per esplodere e voi fate in modo che questo funzioni anche con la vostra tecnica, allora credo che avrete vinto”. In pratica l’insegnamento dei grandi registi tradizionali (anche Hitchcock non potrebbe che essere d’accordo): va bene girare in modo differente, cercare modi nuovi di raccontare, ma poi il meccanismo deve funzionare con il pubblico. E Lester lo sa bene perché dopo i suoi primi, interessanti esperimenti, per trovare il successo ha dovuto entrare nel genere per mettervi la sua visione. Lo abbiamo visto con i due film da Dumas, lo vediamo anche in Juggernaut: “Il modo in cui affronta il film di genere catastrofico per farne un film sull’attesa di una catastrofe che non avverrà, definisce esattamente la sua forza: soddisfa il pubblico dandogli una cosa diversa che non quella per cui è venuto al cinema.” (Dictionnaire du cinema Larousse, trad. mia). “In apparenza Juggernaut è un film della serie catastrofica, attualmente in auge sugli schermi, ma una scrittura più sapida (…) e una perfetta messinscena riescono a creare degli spazi per contenuti insoliti: il problema del terrorismo e delle sue radici; uno studio parasociologico dei vari comportamenti, ai diversi livelli, in una situazione di grave emergenza; la commisurazione del rischio che un singolo specialista deve assumersi per salvare la vita di molti” (Tullio Kezich, Il Millefilm, Oscar Mondadori) (voto 6,5) Kellogs, J&B, una pubblicità del Martini in televisione e la rivista Time Out, product placement nel film.
Con Il vizietto americano (The Ritz, 1976) Richard Lester torna al film comico dopo le commedie storiche e un thriller (Juggernaut). Il film non è mai uscito in sala in Italia ed è stato doppiato e rititolato da Mediaset che lo ha proposto in televisione una decina d’anni dopo. Il richiamo alla “saga” de Il vizietto è puramente speculativa dato che non ne è né un remake né una versione alternativa. Solo il fatto che sia ambientata tra gay e spettacoli drag queen, è bastato per suggerire questo titolo piuttosto insensato. In realtà è tratto da uno spettacolo di Broadway scritto da Terrence McNally e ambientato all’interno di una sauna gay, con annesso teatro in cui si esibiscono le drag queen, ma non solo, infatti vi è anche la scatenata ed irresistibile Rita Moreno, interprete del personaggio Googie Gomez, showgirl senza qualità e disposta a tutto per poter partecipare ad uno spettacolo di Broadway. Con Rita Moreno, anche Jack Weston (un comico brillante sul tipo Zero Mostel di Dolci vizi al foro, la cui carriera si è divisa tra palcoscenico e cinema comico), Jerry Stiller (nella tipica caratterizzazione dell’italiano in America) e un incredibile F. Murray Abraham giovane gay scatenato, erano interpreti anche dello spettacolo teatrale. Qui abbiamo poi un giovanissimo Treat Williams a cui hanno affibbiato una vocina volutamente insopportabile da bambino. Insomma un cast che riesce ottimamente a riprodurre al cinema il divertimento dello stage. La trama vede coinvolta una famiglia mafiosa italoamericana in cui il figlio del capofamiglia morente viene incaricato, come ultimo desiderio di quest’ultimo, di uccidere il cognato per ereditare lui e la sorella il patrimonio del padre. Il povero Gateano Proclo (Weston), la vittima, si dà alla fuga e si rifugia al Ritz, la sauna di cui si diceva e poco dopo arriva anche il cognato (Stiller) e un detective (Williams) da lui ingaggiato. Naturalmente nascono equivoci e situazioni divertenti basate sulle ambiguità sessuali in cui Lester sguazza con godimento. La frase nel finale, molto meno ricordata del “nessuno è perfetto” del famoso film di Wilder, pronunciata dalla moglie di Proclo, Vivian Vespucci, che lo crede gay, è altrettanto divertente: “è una fase, lo scorso anno era il minigolf!”. Consigliato recuperarlo, per chi vuole, in edizione originale per divertirsi con l’ispano-inglese della Moreno e quello maccheronico degli italoamericani. E per sentire anche come le frasi dette in italiano siano decisamente maldestre. “Un adattamento di un successo teatrale che non sembra così divertente come si poteva pensare; ma qualcosa che funziona c’è” il flebile commento, anche un po’ ingeneroso, della Halliwell’s Film Guide, “soffre del fatto di essere una mera fotografia di una performance teatrale. Moreno è memorabile nel ricreare il suo ruolo che l’ha portata a vincere il Tony Award, quello della entertainer senza talento Googie Gomez” secondo Leonard Maltin. Entrambi non sembrano trovare nulla di particolarmente rilevante della regia di Lester. Il film, che ci sia tocco personale o meno del regista, resta divertente proprio perché la commedia da cui è tratto la è. (Voto 6,5) Barrette Hershey gettate dall’amante dei ciccioni a Weston, un panettone Alemagna per caratterizzare l’italoamericano (almeno non è la solita pizza…), la lacca Right Guard per i capelli di Abraham e la Coca Cola più volte citata nel product placement del film.
Con il film successivo, Il ritorno di Butch Cassidy e Kid (1979), Richard Lester ritenta la fortunata operazione riuscita con i romanzi di Dumas, cioè di dare una svolta da commedia ad un film di genere. Stavolta è il Western ad essere messo sotto il mirino e in particolare una pietra miliare come il Butch Cassidy di George Roy Hill con Paul Newman e Robert Redford (qui sostituiti da Tom Berenger e William Katt resi il più possibili simili agli originali…). Infatti il film di Lester è una specie di prequel di quello di George Roy Hill, con Cassidy che esce dalla prigione in cui era rinchiuso, perché promette al governatore di non commettere più rapine nello stato da lui governato (storico!) e incontra subito dopo Sundance Kid, quello che diventerà il compare leggendario della sua banda. Questa volta però il giochino non riesce con la stessa brillantezza con cui era riuscito quello sui tre moschettieri. Il film sembra uno di quegli spaghetti western parodie di film più famosi, come quelli di Leone o delle produzioni hollywoodiane. Lester sembra più interessato alle riprese degli spettacolari paesaggi dei canyon e delle spianate coperte dalla neve che non ad altro e il film scivola via, non senza qualche brandello divertente (grazie soprattutto alla verve di Berenger) ma nulla più: “I due tiranti della vicenda portano agli episodi meglio riusciti di un film altrove slentato e languido: il duello alla pistola fra il Kid e il persecutore, tutti e due con i piedi immersi in uno stagno, e una buffa <<train robbery>> che rinnova con slancio e fantasia un archetipo del cinema” (Tullio Kezich, Il millefilm) (voto 5/6) C’è anche spazio per un minimo di product placement con l’orologio Richards & Co. e la First National Bank.
Con Cuba (1979) Lester va ad impelagarsi nel pericoloso momento storico della rivoluzione cubana. Un militare inglese Robert Dapes (Sean Connery) viene ingaggiato dai politici locali (Batista e Aguero) per combattere i “terroristi”. Dapes dice di andare ovunque vi siano combattenti che vogliono rovesciare il potere costituito ed eletto. Come si sa solo chi racconta la Storia può definire chi combatte contro il potere di volta in volta o terrorista o ribelle rivoluzionario e spesso anche chi è al governo apparentemente eletto è invece un dittatore che trucca le elezioni grazie al potere militare. In realtà Dapes passa attraverso il caos cubano senza essere troppo attivo tra barbudos, omicidi, desaparecidos, venditori di armi, affaristi di dubbia legalità, prostitute, amanti e fratelli vendicativi. A lui, in definitiva, interessa solo la storia d’amore con la bella Alexandra (Brooke Adams) che aveva amato in passato ed ora ritrova, dopo molto tempo, sposata ad un ricco produttore di Rum. A Lester interessa invece ricreare l’atmosfera dei palazzi cubani, seppur girando nell’amata Spagna, con quei palazzoni e quei bar una volta eleganti ed ora sempre più decadenti, e farvi agire i suoi personaggi, ma si lascia un po’ sfuggire di mano la direzione narrativa. Come il suo protagonista si lascia trascinare in mezzo al caotico momento storico (siamo alla fine degli anni ’50 quando l’elezione di Aguero causa le proteste della popolazione e la vittoria di Fidel Castro) trasformando il film da politico ad un action-romantico con venature da 007. “Il film vale soprattutto per il quadro d’ambiente animato e contraddittorio, per la sua capacità di seguire le vicende con la curiosità ironica di un reporter sofisticato e per certe finezze intellettuali” è il benevolo commento di Tullio Kezich nel suo Millefilm. Un po’ meno quello di Morandini: “difficile è capire i motivi che hanno spinto R. Lester a imbarcarsi in questa impresa. Girato in Spagna, produttivamente ricco. S. Connery va di pattuglia in giacca e cravatta” e Mereghetti (che sembra rispondere al quesito di Morandini): “La scelta del tempo e del luogo sottolinea la tematica crepuscolare cara al regista anche se lo svolgersi dell’azione tende a perdere interesse nell’ultima parte”. Ancor peggio quello del Halliwell’s Film Guide: “Melodramma romantico senza scopo che non porta assolutamente da nessuna parte e che sarebbe stato migliore se avesse scelto un interpretazione in chiave Casablanca”. (Voto 6-) Nel libro intervista di Soderbergh a Lester, il regista insiste sulla scena in cui Sean Connery e Brooke Adams hanno una conversazione romantica in piena rivoluzione, filmata davanti a due enormi pubblicità. Ebbene una è quella del rum Pulido (prodotto dal padre e dal marito di Alexandra e quindi fittizio), l’altra invece è quella della Coca Cola, indubbio product placement del film assieme a Cubana Airlines, Red Bull (che nel 1959 non esisteva…), Chateau Moya (vino bordolese), Michelin e Lacoste.
Lester, che ormai è considerato con rispetto a Hollywood, entra nell’operazione Superman voluta dai produttori Alexander e Ilya Salkind e dal francese Pierre Spengler che, acquisiti i diritti dalla DC Comics, affidarono la regia del primo film a Richard Donner. Lester partecipò al primo episodio come produttore associato ma per quanto riguarda il seguito, Superman II (1980), fu costretto a mettere le mani sul film lasciato solo iniziato da Richard Donner. Presosi in carico la regia e la supervisione al montaggio, fece la sua, ormai possiamo dire “solita”, operazione, ovvero trasformare in ironico il testo di Mario Puzo, scrittore del Padrino, ed allontanarsi dalla voglia di esagerazione supereroistica di Richard Donner annegando (spesso felicemente) il tutto in una salsa pop. “Lester preferisce passare direttamente al combattimento omerico nelle strade di New York dove unisce spettacolarità e humour, all’opposto di Donner che, filmando questo stesso combattimento, cercava la grandiloquenza spostando lo scontro sulla statua della Libertà” (L’homme derriere le surhomme, Philippe Rouyer, Positif n. 745). Superman scopre la sua identità con Lois Lane (che ha il volto scavato di Margot Kidder) quando, togliendosi gli occhiali (!!!), scopre il suo vero volto e mostra la sua vera fragilità al mondo, che non è la kryptonite, ma l’amore. Infatti portata la donna nella sua residenza al Polo, residenza fatta di ghiaccio e cristallo, decide di farsi umano perdendo i suoi poteri per poterla amare (lasciate perdere che non si capisca bene il perché…). Peggior momento non poteva scegliere perché nel frattempo arrivano sulla terra tre criminali da Krypton che sulla terra hanno gli stessi superpoteri di Superman e vogliono conquistare il mondo! Terence Stamp il generale a capo della combriccola scalza il presidente degli Stati Uniti e diventa dittatore del paese, assecondato dalla pericolosa e sexy Sarah Douglas e dal bruto Jack O’Halloran. Naturalmente Superman ritroverà i superpoteri (lasciate perdere che non si capisca bene il perché…) e sconfiggerà i cattivi a cui si è aggiunto il solito Lex Luthor (e con questo facciamo anche omaggio a Gene Hackman che proprio ieri, 27 febbraio 2025, è stato ritrovato morto in casa a 95 anni, 45 anni dopo questa interpretazione del nemico principale di Superman). Alla fine con un bacio ipnotico farà perdere la memoria a Lois Lane che tornerà a non riconoscere in Clark Kent l’amato superuomo (sperando si ricordi di non togliersi più gli occhiali!!). Gusto vintage, scarso interesse per gli effetti speciali (che non sono molto più avanzati di quelli del serial Superman del 1948), divertimento da comics senza troppa seriosità. Bisogna anche dire che il buon e sfortunato Christopher Reeves non era certo un grande attore… La serie di Superman fu dileggiata dal Mereghetti che scrive di questo secondo capitolo: “Lester ha ricucito gli abbondanti scarti di montaggio del primo Superman: il film è meno mastodontico e un po’ più agile del primo, ha più pretese di ironia, ma non ci si aspetti granché”. Meglio per Kezich: “Se il primo episodio era scivolato su toni mitologici e solenni, qui siamo in pieno fumetto. Sicché, abbastanza sorprendentemente per un film nato in mezzo a pasticci produttivi e liti giudiziarie, Superman II batte di gran lunga il suo predecessore.” Anche Hallywell riconosce la superiorità dell’episodio di Lester su quello di Donner ma senza esagerare: “Metà del primo episodio è stata dedicata a un’impostazione scricchiolante e inutile di trama e personaggi. Questo sequel è decisamente meglio perché si tutta direttamente nell’azione, ma non è un classico, nemmeno nel genere dei fumetti.” (voto 6). Coca Cola e Marlboro dominano su tutto l’abbondante product placement del film, in particolare svettano nella scena clou della battaglia a New York, ma le marche sono tante, dalle firme di moda (Gucci, Fiorucci, Laugier), a Ford, Polaroid, Coppertone, JVC, Electronics, Mothercare e anche una pubblicità per il musical Evita di Broadway.
La visione supereroistica di Richard Lester non è certo convenzionale, lo abbiamo capito, e in Superman III (1983) il passo di allontanamento dal genere è ancora maggiore. Superman III è a tutti gli effetti un film comico e l’intenzione di Lester è manifestata fin dalla scelta dell’antagonista di Christopher Reeve, ovvero il comico Richard Pryor. Il travolgente inizio è un condensato di scene comiche che attingono da Tati, Stanlio e Ollio, Buster Keaton, Charlie Chaplin… uomini che finiscono dentro a buche, un cieco che perde il cane e lo scambia con un attrezzo di lavoro combinando guai, imbrattamenti, cadute, quadri lacerati, piedi sulle teste, tutto dinamicamente senza pausa per le vie di Metropolis… Quando arriva Superman in volo non siamo più in grado di prenderlo sul serio. Le gag si susseguono per tutto il film (vi è anche il raddrizzamento della torre di Pisa! e lo spegnimento della fiamma olimpica da parte di un dispettoso Superman) guardando al vintage, al nostalgico. Clark Kent torna a Smallville dove è cresciuto e ha studiato e qui ritrova Lana Lang, amore giovanile degli anni del college (Lois Lane è andata in vacanza alle Bermuda…). Intanto Gus Gorman (Pryor), uno squattrinato disoccupato, scopre di avere il genio del computer e che con i computer si possono rubare soldi, in grande anticipo sui tempi… Viene però scoperto dal cattivo di turno, calibrato sui nemici di 007 più che su quelli dei comics dell’uomo di Krypton, Ross Webster (Robert Vaughn) che invece di mandarlo in galera ne sfrutta le capacità per arricchirsi e, naturalmente, conquistare il mondo. Unico ostacolo Superman che come sappiamo ha un punto debole, la kryptonite. Ma dove reperirla? Difficile ottenerla dallo spazio, allora il geniale Gus la crea chimicamente utilizzando il petrolio. Non essendo quella vera però non uccide Superman ma riesce a farlo diventare… umano, non nel senso di fargli perdere i poteri ma di farlo diventare donnaiolo, dispettoso, subdolo e cattivo… Fino addirittura ad una letterale scissione tra il bene rappresentato da Clark Kent e il super-male del supereroe. Naturalmente tutto ciò, a parte permettere un po’ di azione al film, crea situazioni ulteriormente comiche. Se il film viene preso per quello che è, un film parodico e un omaggio al cinema comico, e non come un film d’azione e di supereroi, ancora una volta dal Lester-pensiero otteniamo un notevole godimento. Non la pensano così la Halliwell’s Guide (“a tratti divertente ma esagera nella scrittura e nella recitazione come variazione di un tema stanco”) e Morandini (“Trovate buffe e male organizzate, ritmo lasco, grande sperpero di budget”). (voto 6,5) Macchina fotografica Pentax, scarpe Adidas, un’American Express clonata, Bloomingdale’s e Pan Am. Poi i vizi, Camel, Bacardi, Johnny Walker. Ecco il product placement del film.
Dopo i due Superman Lester torna alla commedia standard, senza stravolgere altri generi, con la sua voglia di divertire. Il treno più pazzo del mondo (Finders Keepers, 1984) è una buffoneria non esaltante ma sufficientemente divertente di caos, equivoci e gente che si rincorre su un treno della AM rail (il product placement più evidente) per accompagnare una bara che non contiene un morto ma i soldi di un furto fatto alla cassaforte della famiglia Latimer e commesso dalla figlia stessa di Latimer e dal suo amante. I due però perdono di vista la bara che servirà a Michael (Michael O’Keefe) come copertura (si fa passare per un sergente dell’esercito che accompagna una vittima di guerra) per sfuggire a sua volta da alcune pattinatrici truffate da lui e da un ufficiale di polizia la cui moglie ninfomane ha fornicato con Michael… Sul treno incontrerà il motivo principale perché abbia senso vedere questo film, e cioè la scatenata Standish (Beverly D’Angelo), una nevrotica sboccata che combina guai a ripetizione e si innamora (ricambiata) di Michael. Avventure rocambolesche che vedono coinvolti anche bizzarri personaggi come un vecchio capotreno impiccione, un paio di doberman, un agente FBI non troppo sveglio, il padre del presunto morto (Brian Dennehy) e “il morto” che in realtà è vivo e disertore, altro che eroe di guerra! (Lo interpreta un giovanissimo Jim Carrey). Clamorosamente contrastanti i pareri del Mereghetti: “Nonostante una serie di personaggi più che squinternati, le premesse per una commedia caotica e scoppiettante vanno deluse, il clima non decolla e il divertimento è scarso” e del Morandini: “è una farsa ferroviaria che resuscita lo stile della screwball comedy degli anni ’30 con qualche pizzico di buffoneria demenziale”. Per Halliwell è una “noiosa commedia-thriller con una vena di bizzarria; tutti gli elementi che la costituiscono li abbiamo visti realizzati meglio in altri film”. (Voto 6-) Abbiamo detto di AM train, poco altro è mostrato in materia di product placement, giusto la rivista Vogue, Gulf e su uno scaffale bottiglie di Beefeater e Bacardi.
Ed eccoci arrivati all’ultimo capitolo della filmografia di Richard Lester, nel 1989 il regista dirige l’ultimo suo lungometraggio di fiction: Il ritorno dei tre moschettieri (1989) ovvero il ritorno a quelli che sono stati probabilmente i suoi più grandi successi di pubblico (la critica in toto ha sempre preferito i suoi primi film e ha scelto in genere Petulia come suo capolavoro) e alla sicurezza di una via già percorsa. E’ un film purtroppo funestato dalla morte del comico, e suo amico, Roy Kinnear che da più parti è indicato come l’avvenimento che ha fatto decidere al nostro di appendere la cinepresa al chiodo… Il film, che proprio in Kinnear trova l’elemento comico con un inizio in cui la fa da mattatore con varie gag riuscite, è ambientato nel periodo del grande scossone politico avvenuto in Inghilterra (1649) con Carlo I detronizzato da Cromwell e poi messo a morte. In Francia, mentre Luigi XIV è ancora un bambino, il trono è gestito dal successore ideale di Richelieu, ovvero dal cardinale italiano Mazarino (Philippe Noiret), uomo di fiducia della regina Anna (sempre Geraldine Chaplin). Mentre i quattro moschettieri si sono dispersi per la Francia per scelte di vita assai diverse, vengono richiamati a riunirsi dalla Regina che, memore dei servizi da loro prestati al suo servizio, affida loro la missione di andare in Inghilterra per salvare la testa del re Carlo I. Il loro viaggio sarà ostacolato dalla figlia di Milady, Justine de Winter (interpretata da una Kim Cattrall decisamente perdente lato fascino rispetto a Faye Dunaway, ma più atletica quando si impegna in combattimenti con la spada) assetata di vendetta nei riguardi dei moschettieri che hanno messo a morte, anni prima, la madre. Riunione degli stessi attori che interpretavano i quattro nei film precedenti, solamente un po’ invecchiati, in un film pieno di trovatine sia sotto il piano della commedia, sia di quello dei marchingegni di tortura e di offesa (geniale, ad esempio, la serie di trappole escogitate da Justine e gestite dietro le quinte da nani che le attivano), nonché pieno, al solito, di ricostruzioni di ambienti e attrezzature d’epoca. Manca però di fluidità narrativa ed è molto frammentato, un film tormentato e difficile da chiudere dopo l’avvenimento tragico raccontato. (voto 6)