Dopo due film che lo hanno lanciato come autore nel mondo intero “Bergman infila tutta una serie di film strani, eterogenei, instabili, erranti. Film dove, alla ricerca di se stesso, rimette in questione la sua capacità, i suoi vecchi modi, ma anche i suoi temi e i personaggi; respingendo il vecchio a caccia di una modernità che ancora gli sfugge, che tarda ad affermarsi” (considerazioni di Olivier Assayas in “Conversazione con Ingmar Bergman, Olivier Assayas, Stig Bjorkman, Ed. Lindau, Trad. Daniela Giuffrida). Il primo di questi è Alle soglie della vita del 1958, tutto girato all’interno di una camera d’ospedale dove si ritrovano tre donne incinta. La prima è Cecilia Ellius (Ingrid Thulin) che arriva in stato emergenziale a causa di un’emorragia che porterà all’aborto prematuro del feto. E’ questo personaggio puramente bergmaniano nella sua disillusione, nel suo rapporto con il marito (Erland Josephson), nel suo pessimismo nel futuro di coppia. “Qui dentro non solo gli uteri sono costretti ad aprirsi ma anche le persone intere” dirà ad un certo punto quando decide di mettere il marito di fronte al fallimento del loro matrimonio “assennato e ragionevole” e al fatto che lui il bambino non lo volesse. Vi è poi la giovane Hjordis (Bibi Andersson), atterrita dalla maternità e giunta in ospedale dopo un tentativo di auto-aborto ingerendo chinino e “saltando la corda”. Solo perdite di sangue ma il bimbo è salvo all’interno di lei. La ragazza non ha futuro, in lite con una madre che la scaccia, con il padre del bambino che di lui (e di lei) non ne vuol sapere, senza soldi e senza casa. La terza paziente è Stina (Eva Dahlbeck), felice del diventare a breve madre, con un marito remissivo e scialbo, un “buon uomo” insomma, di cui pure è contenta. Sarà il momento più doloroso del film, l’apice drammatico anche se preparato con l’eccessiva contentezza dimostrata dalla donna, quando il bimbo morirà durante il parto. E’ un film a tratti potente in cui “ci sono ancora tracce di abilità, di furberia drammaturgica, ma la semplicità e i tratti essenziali del suo cinema ci sono già tutti” (sempre Assayas). E’ un film che contiene molto di Bergman (i rapporti personali, le inquadrature in primo piano dei volti sofferenti, il pessimismo riguardo alla felicità nella vita), ma che ritorna al suo amore per il cinema americano, in questo caso il dramma teatrale di alcune opere di autori come Goulding, Mamoulian, Cukor, La Cava… non rinunciando a qualche semplificazione drammaturgica come, ad esempio, la telefonata finale di Hjordis alla madre, il dialogo della cognata di Cecilia, le “tettate” di altre partorienti ai loro bimbi appena nati. “Un film tutto al femminile che si rivela un inno alla vita nascente, sceneggiato da Ulla Isaksson a partire da due sue novelle e realizzato con l’appoggio del governo svedese che aveva in corso una campagna per il contenimento delle pratiche abortive (il che può spiegarne <<la semplicità e l’esilità filosofica>>” scrive il Mereghetti dandogli due asterischi. (voto 6/7)
Il volto (1958) è stato definito da molti il film spartiacque del regista. Il film in cui, per Assayas, entra nella modernità, il film in cui Bergman analizza la sua arte, in cui fa “il punto della situazione”. Si inizia con il “solito” carrozzone di artisti che giungono “nella capitale” per rappresentare lo spettacolo della compagnia “medico-ipnotica” del dottor Vogler, composta dal mago illusionista Vogler (Max Von Sydow), con la moglie Manda (Ingrid Thulin) che si fa passare da uomo, la vecchia “strega” venditrice di filtri d’amore nonna di Vogler, Tubal un sedicente medico e saltimbanco presentatore dello spettacolo e, infine, il giovane cocchiere Simson. La compagnia viene “sequestrata” dal capo della polizia e dal dottor Vergerus (Gunnar Bjornstrand) che, per dare il visto al loro spettacolo, li ospitano e li costringono ad un pre-spettacolo a loro consumo. Nel frattempo durante la serata nascono amori tra i servitori e le addette alla cucina con i componenti della compagnia, questa parte recupera il Bergman dei discorsi amorosi delle sue commedie. Il momento dello spettacolo invece si fa drammatico, qui viene sviscerato il tema, altrettanto caro a Bergman, della concretezza e indulgenza della scienza vs. il magico, il soprannaturale. La lotta tra Vergerus e Vogler diventa un horror della Ealing con venature espressioniste, con cadaveri vivisezionati, resurrezioni, ombre e vetri infranti. E’ un film principalmente sulle maschere, sull’arte come rappresentazione in costume per svelare le maschere metaforiche che indossano nella vita normale i componenti della buona società. “Rimettiti la maschera se no non ti riconosco.” “E’ ora di togliersi la maschera e iniziare una vita vera”. Suggestiva anche la teoria (non priva di fondamento anche perché in qualche modo avallata anche dallo stesso Bergman in un’intervista a Rondi) per cui Vogler sia Bergman, il creatore di maschere e di finzioni cinematografiche (per i suoi trucchi usa anche una lanterna magica), e Vergerus il critico cinematografico che lo incalza per scoprirne le falsità e la vacuità delle sue creazioni. “E’ un film grottesco, brillante, inquietante, gravido di ambiguità” scrive Sergio Trasatti sul suo Castoro su Ingmar Bergman. “Straordinaria pochade metafisica, è un film enigmatico e affascinante che pone molte domande senza dare risposte sul senso della vita, l’arte, la magia, l’illusione, la fede, la ragione, con qualche disposizione verbosa verso l’allegoria” (Morandini, **** su 5). Non è altrettanto piaciuto al Mereghetti che di asterischi ne dà 2 e mezzo su 4: “L’allegoria, tuttavia, è troppo trasparente e verbosa, e Von Sydow che, con aria perennemente accigliata, distilla sentenze memorabili, fa sorridere”. (Voto 7,5)
La Fontana della vergine (1959) è un film brutale, basico, istintivo. Un film che va dritto al punto e in cui le sovrastrutture filosofiche e psicologiche restano implicite non declamate (giusto un monaco fa un paio di “sermoni poetici”) e infatti non vi è in sceneggiatura la mano di Bergman ma solo quella di Ulla Isaksson. Bergman, che inizia definitivamente la collaborazione con Sven Nykvist (avevano già collaborato per Una vampata d’amore, ma da questo film per 25 anni lavoreranno insieme), si occupa di dare la resa visiva che mai come qui non lascia spazio a immagini liriche ma solo a rudi scontri di corpi, elementi, natura, fuoco e lame. Siamo sempre nell’amato, da Bergman, Medioevo, attorno al 1200 in una grossa fattoria ai margini di un bosco. Qui vive Tore (un imponente Max Von Sydow) con la famiglia, la moglie cristiana bigotta fino all’autolesionismo, la figlia Karin viziata e vogliosa di vita, la “trovatella” Inger accolta dalla famiglia perché incinta probabilmente dopo una violenza e i contadini alle sue dipendenze. E’ il giorno in cui una “vergine” deve portare le candele alla chiesa in città e Karin parte vestita da festa accompagnata da Inger, entrambe a cavallo. Nel bosco verranno avvicinate prima da un vecchio lascivo, poi da una specie di stregone che invita nel suo mulino Inger con cui condivide credenze pagane (Inger inneggia Odino) e cerca di averne i favori. Intanto Karin lasciata sola viene avvicinata da tre “pastori” che si rivelano ladri, violentatori e assassini. Karin viene uccisa. I malviventi più tardi chiederanno riparo a Tore che durante l’ospitalità dei tre scoprirà che posseggono la veste di Karin e da Inger apprenderà della sua morte. La vendetta si scatena violenta con Tore che impugna un grosso coltello per scannare. Il film finisce con il recupero doloroso del corpo di Karin e la promessa di Tore di costruire una chiesa dove lei ha subito la violenza. Il film è diretto come si diceva senza deviazioni particolari dalla trama che è a tutti gli effetti un rape & revenge movie che cela sotto la superficie sentimenti di invidia (Inger con Karin), pulsioni sessuali, sensi di colpa, dubbi (“Tu vedi la morte di un innocente e la mia vendetta e non l’hai impedito. Io non ti capisco”) e certezze (la fontana che scaturisce nel luogo della morte di Karin) sulla fede, contrasti tra cristianesimo e paganesimo (il primo sta sostituendo il secondo), ritualità stregonesche e religiose (il vecchio del bosco ha una scatola in cui contiene un dito mozzo, un pipistrello, serpenti e altra fauna seccata; Inger cattura un rospo e lo inserisce dentro una focaccia da dare a Karin per il viaggio, Tore prima di andare a vendicarsi si lava in sauna e si colpisce con i classici rami, la moglie nel giorno della passione si brucia volutamente un polso) e tensioni di classe (i contadini e i pastori fanno fatica a trovare da mangiare mentre a casa del fattore prosperano cibo e latte). Originale il commento nel dizionario de Il Morandini: “Miscuglio tra Cappuccetto Rosso e Shakespeare” (3*su4). “Bergman qui mette a confronto ragione e passione, cristianesimo e paganesimo (…), tra brutalità p)rimordiali e una raffinata introspezione psicologica. Impregnato di un misticismo severo e aspro” (Mereghetti, 3* su 5) (Voto 7/8)
L’occhio del diavolo (1960) fa parte invece del Bergman che scrive e mette in scena commedie sui rapporti amorosi come in altre opere che già abbiamo incontrato ripercorrendo la sua carriera (Sorrisi di una notte d’estate, Una lezione d’amore, Donne in attesa). Quest’ultimo però non ha la brillantezza “comica” dei precedenti ed è piuttosto “cerebrale”, colto e “intellettuale” pur non raggiungendo neppure la “serietà” analitica de Il volto. Insomma un film sicuramente ben scritto e ben girato (alcune immagini “dell’inferno” con i protagonisti a scalare in nero sono di una plasticità mirabile) ma che resta un po’ a metà del guado, tra il regista spiritoso e in autoanalisi con ironia e quello che fa “il Bergman” come gli viene fatto notare anche per altri film e che riconosce con un’autocritica il regista stesso in qualche sua intervista. E’ più riuscito come saggio acuto sulla figura di Don Giovanni che non come commedia centrata sui rapporti uomini e donne. Partendo da un proverbio irlandese che dice: “La verginità di una vergine è come un orzaiolo nell’occhio del diavolo” (didascalia d’apertura del film) ci si presenta il diavolo con l’orzaiolo che gli è venuto perché la diciannovenne Britt Marie è ancora vergine e sta per sposarsi. Se si maritasse senza aver fornicato sarebbe una clamorosa vittoria per “l’altra parte” e una sconfitta per il signore degli inferi. Allora il diavolo decide di rimandare Don Giovanni, il suo servo e un demone controllore sulla terra per concupire la giovane e farle perdere la purezza, prima che sia troppo tardi! E’ anche l’ultimo film della prima parte della carriera del regista prima della svolta con il film successivo, ovvero “l’opera a venire, capace di confrontarsi con il rischio, l’astrazione, l’abbandono (…) la purificazione del suo cinema e la rinuncia radicale a tutto ciò che, fino ad allora, l’ha fatto nascere e l’ha suffragato” (Olivier Assayas in Conversazione con Ingmar Bergman già cit.). Sergio Trasatti sul suo Castoro dedicato al regista spezza una lancia in favore del film: “è stato a torto considerato opera minore. Molti critici hanno scambiato una diversità di stile con una diversità di ispirazione. Invece qui, in una forma di divertimento compiaciuto ed esibito, Bergman fa il punto molto seriamente su tutti i problemi esistenziali che occupano la sua opera”. Il Mereghetti gli dà solo due asterischi: “nonostante le intenzioni, si perde in dialoghi eccessivamente verbosi e didascalici per il tono leggero e grottesco dell’insieme”. Per il Morandini (2 asterischi e mezzo) “è una commedia grottesca quasi filosofica, riuscita a metà, ma sfavillante d’intelligenza e di brio malizioso, recitata benissimo”. Nessun product placement anche se c’è da notare la presenza di una 500 decapottabile! (Voto 6+)