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CINEMA
14 Ottobre 2024 - 19:43

DIARIO VISIVO (Ingmar Bergman 8)

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Una trilogia: Come in uno specchio; Luci d'inverno; Il silenzio
DIARIO VISIVO (Ingmar Bergman 8)

Come in uno specchio (1960) è definito un po’ da tutta la critica, il film della svolta, della rottura con il Bergman dei ventidue film precedenti. L’unico che non sembra essere d’accordo è… Bergman stesso: “Una cosa è importante e io l’ho capita molto tardi: Come in uno specchio appartiene a un periodo anteriore. La vera rottura si colloca fra Come in uno specchio e Luci d’inverno. Purtroppo ho creato io stesso questo malinteso: Come in uno specchio, Luci d’inverno e Il silenzio non costituiscono una trilogia (…)(rivedendolo ndr) ho dovuto accettare il fatto che questo film era stato per me una sconfitta morale, un completo disastro e che dovevo cambiare tutto, rivoluzionare tutta la prima parte della mia opera e ricominciare dall’inizio (…) è molto superato, molto sentimentale, molto romantico. Ci sono cose meravigliose, con Harriet, ma tutto questo appartiene agli anni ‘50” (Conversazione con Ingmar Bergman, Olivier Assayas, Stig Bjorkman, Lindau, 1990, trad. Daniela Giuffrida). Come è noto l’attività teatrale di Bergman continuava anche mentre si affermava come regista e solitamente durante l’inverno si dedicava al teatro e d’estate girava film. Prima di girare Come in uno specchio, Bergman aveva messo in scena Il gabbiano di Checov e nel film l’influenza di questo testo mi sembra evidente. La riunione famigliare in un luogo appartato, la rappresentazione del dramma nel dramma, le pulsioni sessuali, il pensiero del suicidio, la malattia… Bergman definì questo film, come pure i due successivi, la trilogia da camera perché girato in un luogo circoscritto con pochi personaggi (4: fratello e sorella, il padre, il marito di lei). In realtà non è che Bergman abbandoni i suoi temi, i ragionamenti consueti filosofico-religioso-psicologici vengono sondati con la solita attenzione anche ad un lato evidentemente autobiografico. Il padre è sempre stato lontano dai figli perché molto più interessato al proprio lavoro di romanziere e solo saltuariamente si fa vedere da loro pur amandoli (“di un amore egoistico”), questo ha causato probabilmente un peggioramento alle condizioni della figlia che ha una grave malattia mentale e lasciato il figlio insoddisfatto e impaurito dalle donne. Il marito di lei devoto alla donna per amore è un medico che sembra un po’ il marito di madame Bovary, buon uomo ma mediocre e incapace di farsi amare da lei. Il dramma e probabilmente l’irreversibilità della malattia che la riporterà all’istituto sanitario, scoppia quando in uno dei suoi impulsi sessuali la donna commette un atto incestuoso con il fratello. E’ anche il primo film che Bergman gira sull’isola di Faro, isola da lui talmente amata che diventerà una delle sue residenze (e recentemente celebrata nel film L’isola di Bergman di Mia Hansen-Love del 2021). Ritorna così al mare, all’isola come già in Monica e il desiderio e Un’estate d’amore anche se lì la natura selvaggia era sintomo di libertà e crescita amorosa, mentre qui diventa isolamento, gabbia psicologica e i luoghi dove Harriet Anderson (splendida come sempre da grande attrice qual era) si rinchiude con la sua mente sono il relitto di una nave, la soffitta della casa, il letto del padre, la fenditura nella parete dove crede di parlare con Dio, dove immagina esca un ragno che vuole possederla. “E’ orrendo vedere il proprio sconvolgimento e non capirlo” lamenta con dolore. Il finale dà uno spiraglio di speranza anche religiosa. In un dialogo finale tra il padre e il figlio si concorda che Dio è l’amore e se noi circondiamo lei d’amore allora Dio sarà con lei. E, finalmente, anche il fratello trova pace perché “mio padre mi ha parlato”. “Dopo la svolta, comunque, non scompare d’un tratto tutto ciò che Bergman ha già mostrato con il suo cinema: la riflessione sull’arte, la tecnica della mise en abyme della rappresentazione, la realtà come schermo, l’attrattiva per il doppio, il fantastico nel quotidiano, i meandri dell’immaginario, la reiterazione delle ossessioni intime, i cambi di luce a vista, la drammaturgia della luce, dell’inquadratura e del primo piano” (Da Maestri del cinema: Ingmar Bergman, Cahiers du cinema, Jacques Mandelbaum)(voto 7/8)

(Ri)vedendo Luci d’inverno (1963) si capisce bene cosa intendesse Bergman affermando che la vera svolta nel suo cinema non avvenne con Come in uno specchio ma proprio con questo film successivo. Qui raggiunge l’apice dell’austerità, per 45 minuti non si esce dalla chiesa in cui agisce il pastore Tomas (un Gunnar Bjornstrand da brividi) e i dialoghi non sono tali ma monologhi che, seppur espressi all’esterno, sono tutti interiori. Il pastore ha dubbi sulla strada intrapresa, sulla sua fede (Dio perché mi hai abbandonato), arriva a confessare di aver visto in passato Dio come un mostro quando a lui serviva la sua presenza (si riferisce evidentemente alla perdita della moglie, da quel momento tutto attorno a lui è come finito, i fedeli lo hanno abbandonato e lui si lascia vivere: “bisogna continuare a vivere” “perché bisogna vivere?” nel dialogo con il suo più grande fallimento, Persson il padre di famiglia tormentato che va da lui per aver sostegno e non trovandolo si suicida). Rifiuta l’amore assoluto e senza richiesta di contropartita della sua devota (non di Dio a cui non crede) Marta (un Ingrid Thulin appositamente imbruttita e dimessa), la massacra di male parole denigrandola ed umiliandola, per poi portarsela a dietro come un male necessario (o come un cedimento all’amore “perché solo nell’amore si incontra Dio”); non è in grado di dare sollievo a nessuno e le parole liturgiche sono solo riti vuoti. L’asciuttezza di Bergman sta tutta negli innumerevoli primi piani (praticamente tutto il film è un’alternanza di volti inquadrati con la capacità di un Tiziano o di un Raffaello di esplorarne l’interiorità anche senza i colori dei due grandi pittori) che trova la consacrazione nella lunga inquadratura fissa sul volto di Marta (8 minuti circa anche se spezzati per alcuni secondi) mentre recita la lettera d’amore che ha scritto al pastore; l’ascetismo e l’essenzialità lo avvicinano a Dreyer e Bresson. Un capolavoro di rigorosità. Prima o poi Bergman doveva fare i “conti” con il padre pastore: “Tutto aveva molto a vedere con mio padre. Ho cercato di capire le difficoltà che aveva avuto nel corso della sua vita. Per me era giunto il momento di sbarazzarmi di tutta quella confusione religiosa e di essere onesto con me stesso.” (da Conversazione con Ingmar Bergman cit. sopra). Luci d’inverno è uno dei soli tre film (gli altri sono Sussurri e grida e Persona) che Bergman dichiarerà essere pienamente riusciti della sua lunga carriera. “Un altro rigoroso, impietoso dramma da camera, chiuso tra una chiesa e poche case di un villaggio, quasi privo, tolta la scena del passaggio a livello, di momenti “fortissimi”, ma sotto la sua semplicità c’è una complessità non facile da cogliere” (Morandini). “è una delle opere più livide, spoglie e meditabonde di Bergman” (Mereghetti) (Voto 8). Product placement per Aspirina.

Il silenzio (1963) chiude la trilogia che alcuni dicono della questione religiosa ed altri del racconto da camera. Il silenzio è il più estremo dei tre. Analisi psico-sessuale senza sconti di un rapporto tra due sorelle che si ritrovano con il figlio ancora bambino di Anna, la più giovane, a doversi fermare, dopo una vacanza, in un paese inesistente, Timoka, in cui si parla una lingua sconosciuta e in cui carrarmati girano per le strade. In tale contesto si svolge il dramma esistenzialista delle due donne praticamente girato solo (o quasi, vi è una parentesi in un locale ambiguo) all’interno di una camera d’albergo. Ester (una Ingrid Thulin di clamorosa intensità) è la più anziana ed è una donna malata, sola, disillusa ed alcolizzata. Ha probabilmente deciso di vivere una vita intellettuale e indipendente (probabilmente “rinunciando” a più di una maternità: “quando mi fecondavano puzzavo di pesce marcio”) restando però abbandonata a se stessa nella maturità e che sente la morte vicina. Anna (una prosperosa e conturbante Gunnel Lindblom) è invece la più giovane, la cui vita è sempre dipesa ed è stata schiacciata dall’ingombrante personalità della sorella. Cerca continuamente una rabbiosa rivendicazione di sé stessa in una ninfomania distruttiva. La “resa dei conti” tra le due si svolge sotto gli occhi del ragazzino che rappresenta la formazione psicologica e sessuale probabilmente dello stesso Bergman (nella sua autobiografia ci tiene a precisare che ha parecchio vissuto tra donne della sua famiglia) ma anche dell’attrazione che sempre ha avuto per le donne restando un bambino mai cresciuto nei loro confronti. E’ il film più sessualmente esplicito finora girato dal regista, dai nudi della Lindblom, al rapporto sessuale piuttosto esplicito di due sconosciuti nel locale notturno dove si reca Anna, alla masturbazione rimasta iconica della Thulin, fino al rapporto doloroso con il cameriere consumato da Anna davanti a Ester e, per finire, il sospetto dell’incesto fra le due sorelle. Di questo se ne accorse il pubblico di alcuni paesi, non quello italiano che vide una pellicola massacrata dalla censura e in cui tutte queste scene furono tolte. Un film che come la vita parla di “erezioni e secrezioni” come dice Ester. E’ Bergman che trova la sua strada definitiva che lo porterà ad una serie di capolavori che ne distinguono lo stile psicologico ma anche visionario (nel film sono contenute immagini di bellezza “storica” che in pochi altri film del periodo “bianco e nero”, che da qui a pochi anni si va a concludere, si possono riscontrare dai tempi del muto.). E’ un film assolutamente bergmaniano con i suoi stupendi primi piani, i dettagli, gli accostamenti dei visi in composizioni magnificamente intense, ma è anche un film che contiene suggestioni di tanti altri autori, cominciando dal servitore che sembra uscito da un film di Tati, all’attenzione alla profondità di campo e ai diversi piani di lettura che vengono da Welles, ai riflessi bunueliani (il cameriere che annusa le gambe di Anna) e felliniani (i teatranti “nani”). E non si può non citare Antonioni che ha da poco licenziato il film esistenzialista La notte. “è plausibile anche considerare Il silenzio come la pietra di paragone di una serie di rappresentazioni dello squilibrio mentale che non ha precedenti nella storia del cinema” (Jacques Mandelbaum in Maestri del cinema Ingmar Bergman, Cahiers du cinema). “Con qualche punta di esibizionismo, radiografia del sesso come violenza, malattia, presagio di morte è un film che ha dato scandalo, suscitato discussioni, provocato gli interventi della censura, subito manomissioni nel doppiaggio. “Quando oggi rivedo Il silenzio, devo ammettere che in qualche parte risente di una certa letterarietà… Per il resto non ho alcuna recriminazione da fare” (I.Bergman)” da ilMorandini 2011. (voto 8,5). Bizzarra sequenza di prodotti (vodka, scarpe, giornali) con appellativi che appartengono alla lingua fantasiosa dell’altrettanto fantasiosa Timoka. Un product placement “fantasioso”.

Stefano Barbacini

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