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CINEMA
13 Settembre 2024 - 21:13

DIARIO VISIVO (Mario Gariazzo)

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Tutti i film di Gariazzo
DIARIO VISIVO (Mario Gariazzo)

L’esordio del giornalista, teatrante, produttore ed esperto di Ufo Mario Gariazzo come regista di film, avviene nel 1962 con un noir metafisico decisamente curioso. Sulle spalle affidabili di Alberto Lupo viene costruito Lasciapassare per il morto, il film in questione, che lo vede come unico protagonista. Disperato per non riuscire ad ottenere quello che vuole (una vita agiata con la donna che ama senza dover troppo tribolare), il protagonista si accompagna ad una banda di aspiranti rapinatori che riusciranno a rubare un’importante somma di denaro ma finendo tutti male, tranne il nostro. In fuga, medita di approdare in Francia con il denaro per raggiungere la fidanzata con il solo problema di passare la frontiera senza farsi acciuffare. Dopo una dura salita nella neve delle Alpi gli viene un’illuminazione quando vede una bara in procinto di superare la dogana, una bara che ha tutti i documenti a posto per approdare in Francia. Decide di sostituirsi al defunto mettendosi insieme al denaro dentro la bara e in questo modo passa senza sorprese i controlli. Il problema lo avrà quando il feretro viene depositato in una cella frigorifera. Inizia così la sequenza più impattante del film con Lupo che cerca di ingegnarsi per non morire di freddo e per aprire la porta di metallo che lo sigilla all’interno. La fuga finale senza speranza, ancora sulle nevi alpine, assomiglia a quella “esistenziale” di Vincent Gallo in Essential Killing (2010) di Jerzy Skolimowski. Il lato metafisico è rappresentato dalla presenza di una bella quanto inquietante donna che ha un significato simile a quello del venditore di palloncini nell’omonimo film di Gariazzo del 1975. E’ un peccato che un film così particolare e a suo modo interessante, nonostante la mancanza di coerenza generale e alcune soluzioni di trama irrealistiche, non sia citato dai due dizionari più importanti dell’editoria italiana, il Mereghetti e il Morandini (almeno nelle edizioni 1996 e 2011) e nemmeno dallo Stracult di Giusti. Lo si può recuperare in versione inglese con sottotitoli sempre inglesi su Youtube. (voto 6,5). No product placement.

Dio perdoni la mia pistola (1966-1969) è un western dalla storia tribolata, iniziato da Gariazzo nel 1966, poi fermato per problemi di soldi, è stato poi finito nel 1968, per uscire nel 1969, da Leopoldo Savona. Il film vorrebbe essere una “detective” story western, con un ranger (interpretato dall’attore americano Wade Preston) giunto in un paese per indagare su quanto successo a tal Prescott, accusato di rapina e omicidio e condannato a morte, faccenda che non gli è chiara. Infatti scoprirà che dietro a tutto vi è il suo collaboratore, ora costretto su una sedia a rotelle (ma…) Clayton (l’altro attore americano Joe De Santis che su Imdb scambiano per Giuseppe De Sanctis, il regista!). Con l’aiuto della figlia di Clayton, innamorata di Prescott (la triestina Loredana Cappelletti in arte Loredana Nusciak, frequente caratterista nel cinema di genere di quegli anni), di un nano e di un vagabondo muto, riuscirà a sgominare la banda di Clayton e ad uccidere il patron in un duello atipico… Il film è raffazzonato e ripresenta i soliti schemi del cinema western, soprattutto di serie b, ma ha la particolarità (che non salva comunque il risultato) di inserire alcuni “trucchi” bizzarri come i travestimenti del protagonista (da reduce sudista pieno di acciacchi, da monaco e da vecchio medico che parla in modo strascicato come i tipici vecchietti western) e le trovate da lui usate per salvarsi le corna: con uno specchietto nel cappello riesce a sparare dietro le spalle, una stampella diventa un fucile precisissimo e dall’uomo muto riceve un cappello… sparacoltelli! (voto 5)

Dopo la delusione del suo primo western, Gariazzo ci riprova con Il giorno del giudizio (1971) cercando un’autorialità “leoniana”, ovvero dilatando i tempi e inquadrando in dettaglio gli occhi degli interpreti tra cui spiccano quelli glaciali di uno smagrito ed invecchiato Gordon Mitchell. Il protagonista è però l’americano Ty Hardin (riciclatosi nello spaghetti western in questo periodo) che interpreta uno sconosciuto che arriva in un paese e comincia ad uccidere gente apparentemente senza senso. Lo sceriffo Rossano Brazzi, con il vice Mitchell, cerca di capire chi è e perché il tizio sia arrivato a portare morte nella loro terra. Scopriremo che dietro a tutto ci sta una storia di vendetta perché all’uomo sono stati uccisi moglie (Rosalba Neri) e figlio e lui cerca tutti i colpevoli. Il film arriva quando nel western italiano è già stato detto tutto e allora Gariazzo si inventa qualcosa prendendo idee dal giallo-thriller come il pupazzetto meccanico di un tamburino che fa suonare per annunciare (“dura un minuto poi morirete”) la morte dell’avversario. Il tamburino era un giocattolo del figlio e per mezzo di questa trovata riesce a creare quella che è la più bella sequenza del film quando tre ceffi stanno dormendo in un carro e sentono il rumore del pupazzetto nella notte ma non vedono nessuno e cominciano esasperati a sparare alla cieca ossessionati dal ticchettio del tamburino. Altra trovata derivata dal thriller psicologico è la sequenza dell’incubo di Rossano Brazzi che ricorda la notte dell’omicidio della moglie dello sconosciuto. Gariazzo riprende poi la trovata dei travestimenti del protagonista, come nel film precedente, qui Hardin si trasforma in un becchino-filosofo barbuto e in un indiano che ad una fiera dà spettacolo in un circo itinerante (altro passaggio interessante del film). Decisamente meglio di Dio perdoni la mia pistola ma comunque un episodio minore nella storia dello spaghetti western. (Voto 5,5)

Di Acquasanta Joe (1971) trovate una splendida versione (interrotta ogni tanto da pubblicità) su Youtube, è il terzo western consecutivo di Gariazzo e anche l’ultimo da lui girato. Forse il migliore dei tre ma è un film che ha il problema dei precedenti, ovvero Gariazzo mette troppa “roba” all’interno dei suoi western, cerca di riproporre un’epica alla Leone ma poi non vuol rinunciare alle spiritosaggini tipiche dello spaghetti western nel periodo della sua decadenza, complica la trama poi non riesce a gestirla. Inserisce personaggi potenzialmente interessanti come “il siciliano” di Tuccio Musumeci o Estella, la donna del capobanda (una Silvia Monelli che sembra veramente di sangue indiano), qui non la solita donna di secondo piano come nella stragrande maggioranza dei film di questo genere, ma una potenziale coprotagonista interessante, poi però li “perde” nello svolgimento quando il focus si concentra unicamente su Jeff Donovan, il capobanda poi tradito dai suoi in un vero e proprio “ammutinamento”, e Acquasanta Joe, il cacciatore di taglie. Interpretati dai due attori americani Ty Hardin e Lincoln Tate, sono i due ambigui protagonisti alla caccia di ricchezza passando sul cadavere di chiunque lo possegga, uno dalla parte della legge (spietata) l’altro da quella del crimine. Come in Il giorno del giudizio, Gariazzo mette anche due nudi nel film, cosa insolita nel genere, quelli delle due donne da saloon interpretate da Rosita Torosh e Annie Carol Edel. (voto 5/6)

La mano spietata della legge del 1973 è probabilmente il miglior film di Mario Gariazzo. Pulici di Nocturno lo considera uno dei migliori polizieschi dell’epoca. Per Giusti nel suo Stracult “poliziottesco con qualche idea”.

L’anno dopo il nostro cavalca l’onda di L’esorcista e precede tutti con il primo derivato italiano (ne seguiranno vari altri), L’ossessa (1974), anche se lo stesso Gariazzo sosteneva che il film fu girato prima dell’americano e fu tenuto bloccato dal produttore, difficile da credere... Stella Carnacina è la protagonista, restauratrice di opere d’arte le viene affidata una statua di Cristo di legno appena ritrovata, antica e di fattura esemplare. La statua si rivela però essere un manufatto demoniaco, si trasforma in uomo satanico (Ivan Rassimov che la faccia demoniaca ce l’aveva naturale…) che la spoglia e la violenta. Sogno o realtà? Fatto sta che da questo momento la bella Stella (che attraversa il film sempre a bocca aperta urlando, sbavando o vomitando… verde) è posseduta dal demone che le dà visioni di sabba, le piaga mani e piedi in stigmate cristologiche e la trasforma in una ninfomane disposta anche all’incesto. Vera possessione o cedimento psicologico dovuto ai rapporti non idilliaci con la madre (Lucretia Love che ama farsi fustigare con le spine delle rose dall’amante Gabriele Tinti) e il padre (distante e interessato solo alle “apparenze” sociali da difendere). Questo dilemma potrebbe rendere il film piuttosto interessante se poi non si ritornasse al riferimento friedkiniano e non entrasse in scena il prete superesorcista Luigi Pistilli che dissipa tutti i dubbi sulla reale possessione. Un film che impasta varie trovate tipiche dei B movie horror e sexploitation in un miscuglio indigesto e arrabattato ma che, nonostante le cadute fragorose nel ridicolo (la Carnacina che con le mani insanguinate corre per un paesino diroccato è da vedere quanto è mal concepita ed interpretata, ad esempio) non mi riesce a dispiacere del tutto, anche perché Gariazzo dimostra di saper sfruttare bene, in alcuni frangenti, gli elementi registici del genere. (voto 5 e mezzo). Un macchinario Philips, un posacenere con la pubblicità della Tuborg, un pacchetto di Marlboro e una Mercedes nel product placement del film.

Per Davide Pulici Il venditore di palloncini (1975) è “un lacrima-movie coi fiocchi, bello, bello, bello, girato obbedendo all’imperio commerciale, certo, ma con una delicatezza che testimonia ancora una volta del carattere di Gariazzo” (da Nocturno n. 10 aprile 2003 Addio a Mario Gariazzo). Per il Giusti “la famiglia del piccolo malato pronto alla morte è formata da James Whitmore ubriacone e da Marina Malfatti, mamma un po’ mignotta che ha abbandonato il marito. Il bimbo Giacomino è lui stesso una famiglia, visto che gira per la città con un teatrino ambulante per guadagnare qualcosa per il padre. Poi un giorno gli appare Cyril Cusak venditore di palloncini. Disastro”. (Marco Giusti sul dizionario Stracult, Sperling&Kupfer Ed.) Il film è girato, almeno nella prima parte, con una certa “sporcizia” di immagine e ambientazione dipingendo un quadro “realista” della vita di borgata, con l’osteria, il teatro di varietà di seconda categoria, la madre insoddisfatta e un po’ “sfatta” che sogna una vita migliore ma finisce poi sulla strada, Whitmore eccellente nel ruolo del padre che affoga i dispiaceri nel vino bianco e perennemente in bilico tra rabbia, disperazione e falsa apparenza di serenità da giocare col figlioletto, la casa “due stanze scrostate”, i buzzurri di quartiere che lo deridono e Maurizio Arena dal cuore buono che li zittisce a pugni. Quando il bimbo finisce all’ospedale malato è altra roba con avvenimenti improbabili e patetici fino al finale troppo stiracchiato con Giacomino portato da tutti gli amici al circo prima di essere accolto dal venditore di palloncini (secondo il regista dovrebbe essere Gesù che consegna i palloncini che vanno fino al cielo…). (voto 5,5). L’osteria/bar del paese è praticamente un contenitore di product placement tipici del tempo. Ovunque troviamo pubblicità (flani, portacenere, bottiglie) di Punt&Mes, acqua Pejo, Fernet Branca, Carpano, J&B, Cynar.

Occhi dalle stelle (1978) non merita il 3,9 di media che quattrocento utenti hanno dato a questo film su imdb. Gariazzo da una parte cavalca l’onda di Incontri ravvicinati del terzo tipo (anche se pure stavolta, come per L’ossessa, il regista dichiarerà che lo ha girato prima dell’altro…), dall’altra cerca di dare un’aura seriosa alla vicenda, essendo lui stesso un ufologo che pare conoscesse bene l’argomento. Nei titoli di testa, sotto il suo nome de plume Roy Garrett, mette un’appartenenza ad alcune società di studi sugli UFO americane per rafforzare quello che andrà a raccontare. Ovvero l’apparizione di una navicella spaziale (il tipico disco volante come appare in centinaia di film) ad un fotografo e alla sua modella. I due spariscono misteriosamente ed un giornalista, aiutato da uno studioso di ufologia fortemente credente nell’esistenza degli stessi, indaga sulle sparizioni e sulle… apparizioni. I due verranno contrastati dalla CIA, che vuol nascondere l’esistenza degli alieni, e dagli alieni stessi che faranno sparire le prove della loro presenza. Il film ha una trama potenzialmente intrigante tra complottismo e doppi giochi da spy movie, ma è troppo statico e Gariazzo lo prende troppo sul serio. Inoltre a buoni passaggi che denotano una certa capacità narrativa del regista, si cade quasi nel ridicolo con gli alieni in tutina e il disco volante artefatto. Interessante invece l’approccio orrorifico con il volto argentiano di Franco Garofalo, il finale impietosamente violento e con le inquietanti soggettive degli alieni (occhi dalle stelle) che quando restano invisibili sono certamente più paurosi che quando vengono mostrati. Cast eterogeneo con attori americani (Martin Balsam, Sherry Buchanan), l’austriaco protagonista Robert Hoffmann, la francese Nathalie Delon, un glaciale Giorgio (George) Ardisson e i caratteristi italiani. (Voto 5,5) Immancabile il product placement, anche se misurato in questo caso, di J&B.

“Siam venuti sulla terra con pacifiche intenzioni, non rompeteci i coglioni e lasciateci scopar…” la canzoncina iniziale di Incontri molto… ravvicinati del quarto tipo (1978) insieme al titolo altrettanto camp, fa capire di che trashone stiamo parlando. Qualcuno deve aver detto a Gariazzo che la faccenda degli ufo con il precedente Occhi dalle stelle lo aveva preso un po’ troppo sul serio ed ecco subito dopo la versione erotico (molto) fantascientifica (poco) del precedente. In realtà qui di alieni non ce ne sono, ci sono tre studenti che al motto “come disse Garibaldi alla battaglia di Aversa, ogni lasciata è persa”, come in una barzelletta “sporca”, e tutto il film è praticamente questo, si vestono da extraterrestri con tuta di latex nera, casco anticipatore della “morte nera” ma con attaccato un tubo di plastica idraulico, pistole laser giocattolo e si presentano in casa dell’improbabile professoressa di astrofisica Maria Baxa e della servetta veneta Monika Zanchi facendosi capire a… fischi. Le due pensano (ma scopriremo che la cosa è ben più maliziosa) di doversi prestare come cavie per farsi studiare dai tre e si spogliano dando il loro corpo alla… fantascienza! Parallelamente un vicino armato di doppietta (Mario Maranzana), che pare (fonte Stracult di Giusti) per sparare “cinematograficamente” ai tre alieni abbia sparato realmente al povero Gariazzo che dovette lasciare il film nelle mani di Baldanello, dà la caccia ai tre anche perché in una scena boccaccesca questi hanno ripetutamente preso da dietro la moglie, Marina Daunia, che pensava (una volta sì poi ci prende gusto…) fosse il marito a “muoversi” tornato ai fasti erotici di un tempo… Insomma una “commediaccia” figlia dei tempi che, nonostante perfino gli utenti del Davinotti lo massacrino!, a me non riesce a dispiacere perché, appunto, si accoda ad un certo tipo di cinema popolare e sexploitation che rappresentava l’alternativa del porno ad una liberazione sessuale che ancora non aveva esaurito la sua onda. La Baxa e la Zanchi nudissime concedono anche una notevole scena lesbo. Presente nel finale un cameo de The fenomenal Jimmy. “E’ la povertà di mezzi fatta cinema, è il film di Tim Burton delle campagne romane” apprezza Michele Giordano in un suo scritto. (voto 6-) Per far capire come sono arrivati sulla terra uno dei ragazzi butta una moneta in un bicchiere, “hanno avuto un incidente e sono caduti dal cielo” dice la Baxa, “sono caduti nella Coca Cola?” risponde ingenuamente la Zanchi. E la Coca Cola sarà presente in varie scene, che abbia partecipato a questo film come product placement ci pare bizzarro… ma chissà. Sola altra marca visibile Philips.

Nel 1979 Gariazzo gira lo “scult” Play motel (1979) film che probabilmente sarebbe stato uno dei tanti thriller erotici se la sua fama non si fosse ampliata a causa degli inserti hardcore inseriti e girati dalla sempre più disponibile Marina Frajese (e infatti l’anno dopo passerà al porno “vero”) ma che Gariazzo assicura non aver girato (dallo Stracult di Giusti: “Io avevo diretto un thriller magari un po’ spinto ma non certo pornografico (…) credo che la colpa sia del produttore che una volta terminate le riprese ha ‘gonfiato’ la pellicola con spezzoni hard”). Regista e interpreti (Lovelock e Rizzoli) pare abbiano addirittura abbandonato il set in anticipo e il film sia stato completato dal produttore stesso. Tutto ciò sembra riscontrarsi nel montaggio del film e nella trama in cui ci si cerca di coniugare erotismo (lunghe, anche estenuanti, sedute fotografiche in cui spicca il corpo di notevole bellezza della Rizzoli), perversioni (buona parte del film si svolge nella camera del motel del titolo in cui gli amanti possono vestirsi da diavoli, suore, cardinali, regine di cuori, maghi e legare, frustare, utilizzare bottiglie di vino come giochi erotici), ricatti (un insospettabile -parliamone…- gestisce una rete di ricatti fatti utilizzando le fotografie prese di nascosto ai fedifraghi che si danno da fare dentro al motel), omicidi (solo donne le vittime, naturalmente, che cercano di denunciare il traffico) e riferimenti al thriller argentiano (assassino con guanti neri che agisce nell’oscurità strangolando le vittime, dettagli dei suo occhi…) ma con una certa disomogeneità. Alcune sequenze dimostrano che Gariazzo non è proprio un principiante; Lovelock e la Rizzoli (sono una coppia coinvolta loro malgrado nei traffici ma dalla parte della polizia), il poliziotto Anthony Steffen e il cattivo Mario Cutini ma anche Enzo Fisichella e la carnosa ed erotica Patrizia De Rossi Webley prestano la loro iconica presenza già certificata nei vari film di genere da loro interpretati. Iconiche, e quasi sempre presenti nel product placement di questo tipo di cinema, lo sono anche J&B praticamente su ogni scaffale, Campari che appare in un’insegna luminosa e Agip. Poi troviamo pure Grundig, Fujica e Telefunken. (Voto 5+)

Film misconosciuto, pare uscito solo a Napoli, Attenti a quei due napoletani/Sabotaggio a Napoli (1980) è un film del filone spionistico in cui due agenti segreti con l’aiuto del “tenente Muller”, ovvero la non molto conosciuta Marisa Reichlin che recita più che altro per far vedere le gambe sotto la minigonna che indossa per tutto il film, devono recuperare dei documenti rubati che concernono un misterioso Progetto Zodiac. La trama è sfilacciata e difficile da seguire, le canzoni napoletane annoiano, le battute contenute nel film non fanno ridere. Un film senza un vero senso e senza pubblico praticamente. Si salva solo l’impudenza con cui i due agenti uccidono i cattivi senza nessuna remora, cosa che nei film dello stesso genere, quelli leggeri italiani derivati dagli 007, non è così scontata. (voto 4/5). Uno dei due uomini ha come copertura il lavoro da autista di taxi e sul taxi, non ci pare sia casuale, il product placement di Cynar.

Del 1984 è Fratello dello spazio che cerca di sfruttare i successi di ET ma resta congelato fino al 1988 per poi uscire in Spagna e Germania solamente. In Italia non è uscito anche se si torva attualmente in italiano su Dailymotion

“Questa è una storia vera e i fatti riportati sono ricostruiti esattamente come sono avvenuti e come sono stati raccontati dalla protagonista ad un giornalista italiano” inizia così il tardo “cannibalico” di Mario Gariazzo del 1985, Schiave bianche, violenza in Amazzonia, con la protagonista che sta raccontando la sua storia al giornalista e il flashback che la riporta all’aula di tribunale di un paese sudamericano dove è accusata di aver ucciso delle persone. Lì lei racconta la sua disavventura con un flashback nel flashback, con lei ragazza che va, assieme agli zii, a trovare i ricchi genitori che hanno affari in Amazzonia e qui i genitori vengono uccisi con cerbottane con punte al curaro. Lei viene accolta da una tribù di indigeni, diventa la disputa tra due indios che vogliono possederla, subisce uno sverginamento con un rozzo dildo di legno e assiste ad orrori tipo persone uccise da coccodrilli, amanti puniti uno appeso a testa in giù e lasciato alle formiche che gli divorano la faccia e l’altra messa a morte in una canoa nelle rapide di un fiume, serpenti velenosi, decollazioni e mummificazione di teste. Viene però presa sotto l’amorevole custodia di un giovane della tribù che lei pensa essere l’assassino dei suoi genitori e di cui si innamora. (Spoiler) Quando scoprirà che gli assassini sono gli zii poveri che vogliono ereditare i beni dei suoi genitori abbandonerà la tribù per vendicarsi. Il film fa parte dei cannibalici nonostante di cannibali non ve ne siano perché i riferimenti a Cannibal holocaust  & Co. sono evidenti a partire dalla falsa ricostruzione di un episodio naturalmente mai accaduto per arrivare alle musiche, praticamente le stesse del film di Deodato, però il film trascende il genere apparentandosi sia ai mondo movies (d’altronde lo sceneggiatore è uno dei maggiori frequentatori del genere, Francesco Prosperi), che ai romantici esotici erotici tipo Laguna blu (la protagonista Elvire Audray sembra più adatta a quel tipo di cinema), per diventare nel finale un giallo-thriller all’italiana. Il film si lascia seguire bene nonostante le numerose ingenuità e la parte exploitation (brandelli di carne sanguinolenti in parecchie scene e nudi copiosi sia della Audray che di alcune “indigene”) soddisfa gli amanti del genere. (Voto 5,5). Motore di una barca Johnson in bella vista, camicia Wrangler della protagonista sono probabili product placement mentre un Autan appoggiato ad un tavolo probabilmente serviva a tutta la troupe più che nella fiction.

Chissà se Gariazzo quando ha concepito L’attrazione (1987) aveva in mente Il settimo sigillo, conoscendo la simpatica sfacciataggine del soggetto tutto è possibile. Florence Guerin è una fotografa di moda che chiede ad un ricco banchiere di poter fare un servizio nella sua villa. Alla fine della sessione fotografica, con belle ragazze a seno scoperto e indumenti intimi, l’uomo la sfida a giocare a scacchi. La posta della partita è avere le grazie della fotografa se vince lui, la morte se vince lei. Vedete che il nostro amato regista punta alto e addirittura rilancia doppiando il gioco. Infatti l’uomo, Marino Masè, dopo esser stato lasciato dalla moglie convive con una ex tenutaria di case chiuse (Martine Brochard) e una segretaria (Ann Margaret Hughes) con cui ha o ha avuto rapporti carnali. Le due donne partecipano al gioco scommettendo sull’uno o sull’altra e come posta hanno lo svelamento del loro passato e dei loro secondi fini. Valeria, la segretaria, infatti ha anche lei segreti dato che è stata ingaggiata per sputtanare il banchiere con foto compromettenti per troncargli la carriera. Poi arriva anche un altro personaggio che sembra buttato lì senza troppa convinzione. La trama che sembra articolata è clamorosamente lasciata da parte per privilegiare le scene erotiche, principalmente con oggetto il bellissimo corpo nudo della Guerin, ma anche le altre due attrici non si risparmiano. Si fa fatica a capire come le varie tracce del plot possano stare assieme, tra sogni che si inframmezzano alla realtà e buchi di sceneggiatura. Vi è anche una sorpresa finale (spoiler-la Guerin si scoprirà essere la moglie dell’uomo) degna di opere meglio costruite. “Florence Guerin, la migliore tra le nuove attrici del cinema erotico, Martine Brochard e l’ineffabile Marino Masè sono gli interpreti de L’attrazione (1987) di Mario Gariazzo. E’ una storia curiosa, sospesa tra erotismo e melodramma, con una sfumatura di giallo.” Con una certa benevolenza così presentano il film Bruschini e Tentori sulle pagine del loro libro Malizie perverse il cinema erotico italiano (Granata X-1993), e non è che quello che scrivono non sia vero ma non dicono che tutto è lasciato andare in malora dalla mancanza di tensione e suspence, Gariazzo si concentra solo su maliziose scene erotiche tentando di imitare Samperi fuori tempo massimo. (voto 5). La voyeuristica macchina fotografica imbracciata dalla Guerin è una Kowa giapponese e buna parte delle sequenze finali (di pessima fattura) si svolgono davanti ad un’edicola che riporta un’enorme pubblicità del quotidiano Il Tempo, product placement voluto?

Gli ultimi film girati da Mario Gariazzo sono degli erotici che non sono neppure citati nello stracult di Giusti. Se L’attrazione guardava ancora all’erotismo degli anni Settanta e alla commedia erotica, l’estetica di Intrigo d’amore (1988) è quella di fine anni Ottanta, inizio anni Novanta, quella di Sotto il vestito niente e quella che guarda all’hard che già ha passato la golden age per finire nelle grinfie del video. Non per nulla due delle protagoniste sono Milly D’abbraccio e Valentine Demy, due attrici disinibite che pochi anni dopo diventeranno star del cinema porno. Il film racconta di alcune signore sposate, frustrate dall’assopimento dell’attrazione sessuale con il coniuge, che per ravvivare il loro matrimonio si fanno fotografare nude e in pose sexy da un professionista che solitamente riesce poi a convincerle a far sesso con lui o con la sua collaboratrice (Valentine Demy). I due poi ricattano le donne (o almeno così sembra ma poi vi sarà una sorpresa finale). Mal gliene incoglie perché il marito della protagonista, Milly D’abbraccio, è un poliziotto e scopre il tutto e riesce anche, grazie alle foto della moglie, a tornare a far l’amore con la moglie. Anche in questo film Gariazzo cerca di uscire dal tedio delle scene softcore patinate alla Playboy TV con un intrigo giallo-thriller decisamente deboluccio. Ha il coraggio (questo non gli manca mai…) di citare Jung e Freud e fa passare il Venezuela come fosse la Florida. Molto nudo da parte di Demy, D’abbraccio e Daniela Alviani, anche se la più “carnosa” ed “esposta” è Federica Farnese. (voto 4,5) Una sequenza è girata davanti ad un supermercato Beco, evidente product placement come dovrebbe esserlo la macchina fotografica Chinon, la pubblicità Marlboro su un giornale, quella della birra Tennent’s su un locale e probabilmente anche la maglietta di Virtus palestre indossata da uno dei personaggi.

Con Sapore di donna (1990) siamo invece sull’erotismo softcore che ha come unico scopo far vedere belle figliole nude come mamma le ha fatte e atti sessuali simulati. La trama, che abbandona ogni sottotrama “gialla” al contrario dei due film precedenti (con una postilla finale di cui dirò), dovrebbe mostrarci l’educazione sentimentale di un giovane, il quale passa attraverso varie esperienze sentimentali ed erotiche per trovare la donna giusta per lui. Si parte da Riccione sulla riviera adriatica dove il nostro è accompagnato a Carmen (Filomena Campagna) con cui deve sposarsi a breve; il fidanzamento però si rompe perché la donna si lascia sedurre da un bullo da spiaggia tradendo il promesso sposo. Il giovane Perry (David d’Ingeo) allora “scappa” in America a studiare e qui viene ospitato da un’amica della madre (Valentine Demy ancora protagonista del film come già di Intrigo d’amore) e dalla figliastra Sheila (Debora Calì). Perry si innamora di Sheila ma scopre che questa appare su una rivista soft porno, nuda in pose erotiche. Allora ha una nuova crisi che supera abbandonandosi tra le braccia di Valentine Demy che gli si concede volentieri. Sheila a questo punto si sente tradita e scopre di volere a tutti i costi Perry. I due si riconciliano, copulano e si amano. A questo punto Gariazzo pare voler in qualche modo opporsi a questa pallosissima linearità e inserisce una scena di stupro (spesso tagliata dalle varie versioni del film) di un amico di Perry contro la Demy. Per vendicarla il ragazzo incidentalmente uccide lo stupratore. Fine, ma la fine è quella del film prodotto da Valentine Demy e David d’Ingeo che lo stanno guardando in sala. Lei dice che la scena finale non ha senso in un film che deve essere sentimentale. Poi i due fanno l’amore in sala e arriva la vera fine della pellicola! Un appiccicaticcio tentativo di metacinema, disastro. (voto 4+) Numeroso il product placement che viene inaugurato da una Lacoste, poi un’edicola che pubblicizza Il Messaggero, l’Hotel Corallo di Riccione, il bagno Nettuno sempre della città rivierasca e un’Audi nella parte ambientata in Italia. In America macchina fotografica Chinon, le riviste Myfair e Vanity, una Chevrolet, Seiko e Marlboro. Da verificare il Piano Disco Red Parrott.

Gli ultimi due film di Gariazzo, entrambi girati tra il 1990 e il 1992, sono due spottoni per la riviera Adriatica e per Rimini in particolare. Il primo, il poco visto Ultimi fuochi d’estate (1992) è un sentimentale-erotico sulla falsariga del precedente in cui sempre David d’Ingeo è protagonista nei panni di un giornalista romano mandato a Rimini per un servizio sulle discoteche. In effetti buona parte del film si perde tra immagini di gente che balla in discoteca e un po’ tutti i principali locali del tipo della riviera sono rappresentati: il Tiffany, il Medison, il Las Vegas, l’Embassy, il Lady Godiva ecc. La visita “turistica” continua con il protagonista e la sua fidanzata che visitano l’Italia in miniatura e il Delfinario. Poi, quando il nostro incontra la scatenata Sonia Topazio, si sviluppa la storia tra i due e la fidanzata viene momentaneamente dimenticata. Quando D’Ingeo viene pestato dall’ex della Topazio viene poi curato e consolato da Barbara Blasco a colpi di… lingua. Solo nel finale il nostro torna dalla fidanzata… Gariazzo fa quello che può cercando di sollevarsi dalla piattezza con alcuni effetti visivi in discoteca e, ad esempio, riprendendo parte di un amplesso attraverso gli specchietti retrovisori di una moto. Sono riuscito a trovare fortunatamente (!?) una copia del film solo in lingua turca ma vi assicuro che la trama si segue tranquillamente anche senza capire una parola… (voto 5). Tanto è scarna la trama quanto abbondante il product placement (Audi, La Gazzetta di Rimini, Sony, Martini, Yamaha, Marlboro…). Il secondo film, Che meraviglia, amici! (1992) è addirittura rimasto inedito e ad oggi invisibile. Pare sia una specie di musical sempre ambientato e prodotto in riviera Adriatica.

STEFANO BARBACINI

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