Non mi stancherò mai di ripetere, per quel che può contare il mio apporto alla critica cinematografica, ai giovani studiosi della settima arte di guardarsi film del passato. Di riempirsi gli occhi di ciò che di bello e importante in centoventi anni di storia di questa bellissima arte è stato prodotto. Prima di cominciare qualsiasi attività nel campo, critica, regia, sceneggiatura o quant'altro.
Dico questo perchè se in una buonissima edizione del Far East Film Festival, quella del 2017, con tantissimi film di buon livello e alcuni di ottimo, sia il pubblico che i "black dragon" hanno decretato che il migliore sia stato questo Close-knit, un film visto e rivisto, che presenta il solito personaggio diverso, un transessuale uguale a tutti gli altri transessuali che abbiamo visto sugli schermi, con un storia scontata dall'inizio alla fine e un appiccicoso e opportunistico racconto sdolcinato su una famiglia disfunzionale (anche questo ormai diventato uno stereotipo) in cui una ragazzina abbandonata da una madre scentrata si ritrova a dover convivere con lo zio e il compagno di questo, il transgender appunto, con le ovvie difficoltà di questa ad accettare la nuova "madre" così diversa e gli ovvi avvicinamenti a questa e gli ovvi problemi degli omosessuali e l'ovvio passato di difficoltà in famiglia della transgender (che naturalmente deve avere un passato difficile, come se un transgender non potesse esserlo per natura e scelta...), allora ho paura che qualche mancanza tra pubblico e giovane critica ci sia.
Se si decide che il miglior film sia uno di quelli in cui il cinema latita, in cui la visione è piatta e senza sostanza, in cui solo il racconto e il sentimentalismo conta, allora qualcosa non funziona a mio modesto parere.
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