LUNGO I MARCIAPIEDI – Leonide Moguy (1956)
Nato in Russia e cresciuto negli anni della rivoluzione, Leonide Moguy (nato Moguilevsky) emigra in Francia verso i trent’anni e qui inizia la gavetta cinematografica arrivando alla regia nel 1936. Autore di una quindicina di titoli (tra cui alcuni negli Stati Uniti, in uno dei quali, Sangue all’alba del 1946, esordisce da coprotagonista una già splendida Ava Gardner), viene definito dal Larousse autore di film “lacrymo-social” e la sua carriera “lastricata di buone intenzioni ma sprovvista della minima audacia stilistica”.
Definizioni che calzano a pennello per giudicare “Lungo i marciapiedi” del 1956, una di quelle tipiche opere contro cui i giovani rampanti dei Cahiers du Cinema si scagliavano definendole “cinema de papa”.
Storia dell’assistente sociale Helene (Anne Vernon che ricordiamo come madre di Catherine Deneuve in “Les parapluies de Cherbourg” di Demy e attiva anche in Italia, proprio l’anno successivo a “Lungo i marciapiedi…” è a fianco di De Sica ne “Il conte Max”) la cui vita è totalmente assorbita dal tentativo di aiutare e redimere povere ragazze destinate se no alla prostituzione.
Questa sua vocazione la porta a trascurare il fidanzato, dottore in carriera, e a mettersi contro la propria famiglia borghese. Il caso che le sta più a cuore è quello della giovane minorenne Christine (Danik Patisson, giovane e graziosa ex-ballerina e ex-modella con una carriera cinematografica non particolarmente significativa), prima accolta in casa da Helene e poi, causa contrasti con il fratello che la insidia sessualmente, costretta ad una deriva verso gli abissi del mestiere più antico del mondo (anche perché spintavi dal viscido Roger, pappone di fascino con il volto da gaglioffo francese di Pierre Fromont).
Salvata con gran pena dalla “vita” la giovane viene accolta tra le amorevoli braccia del fidanzato di Helene che le dà un lavoro come infermiera-assistente.
Ma la troppa cura del dottorino per Christine (di lui innamorata) sommata alla trascuratezza con cui Helene porta avanti il rapporto con lui a causa delle sue incombenze sociali, portano ad un dramma finale della gelosia con le due donne che fanno a gara per sacrificarsi a causa di sensi di colpa e ferite del cuore.
Anne Vernon parte come protagonista con vocazione bergmaniana (nel senso di Ingrid) tipo Europa ’51 per finire come la Sanson in un film di Matarazzo. La volontà di Moguy di portare al grande pubblico problemi importanti come la prostituzione e l’emarginazione tramite un racconto popolare melodrammatico è lodevole ma le sue capacità non sono adeguate per trarne un film di qualità. Il racconto non scorre, la narrazione si inceppa per la troppa preoccupazione di presentare le tesi del film e i personaggi sono quasi tutti trattati superficialmente, sono tutti fondamentalmente buoni e pronti al sacrificio o alla redenzione ma, come fragili barche su di un mare in tempesta, costretti dalle influenze esterne e dalle passioni interne all’errore. Il solo veramente cattivo è il pappone che però più che un personaggio a tutto tondo da film noir sembra un coglione qualunque (ad esempio quando prende decisioni assurde tipo investire una prostituta in strada con la sua macchina o presentandosi a casa di Christine…redenta con la polizia pronta a catturarlo).
Insomma, salvando le intenzioni e alcune parti come quando Helene si scaglia contro l’ipocrisia e la poca capacità di capire i drammi sociali dei suoi viziati famigliari, un film di scarso interesse.
Allora perché parlarne in questa sede?
Lo facciamo perché siamo di fronte ad un film MARTINI! Il prodotto è presente sulle tavole dei bar, bevuto dai personaggi del film, la sua pubblicità è esposta più volte sui muri ed è anche esplicitamente ordinato al bancone di un locale.
Insomma, la brand italiana famosa anche per le sue feste organizzate al festival del cinema di Venezia, già nel 1956 aveva deciso di puntare massicciamente sul divertimento popolare per un product placement destinato in questo caso al pubblico del cinema popolare francese.