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CINEMA
7 Marzo 2025 - 23:21

DIARIO VISIVO (Gerard Blain)

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Conosciuto come attore, misconosciuto come regista. Da riscoprire Gerard Blain
DIARIO VISIVO (Gerard Blain)

“Lo dico lo ripeto, per fare un film basta una telecamera, un obiettivo o due e un registratore di suoni, e si può fare un capolavoro” (*). La ricerca della semplicità, dell’asciuttezza delle inquadrature, del suono puro (“la vera musica, per me, è il suono dei passi, il rumore di un bicchiere che viene posato su una tavola”) (*). Bresson, Ozu, Mizoguchi. Ma pure John Ford e Howard Hawks. Questa è l’estetica e la concezione di cinema di Gerard Blain regista. Attore perennemente insoddisfatto (ed è l’interpretazione che gli ha dato la fama mentre come regista è lo ricordano in pochi), Blain nel 1971 esordisce dietro la macchina da presa con Les amis, un film in cui mette in pratica la sua visione di cinema. Attori non professionisti, inquadrature fisse e frontali, poco o niente musica ma rumori d’ambiente postsincronizzati. Ellissi e pudore. Paul, un giovane proveniente da una famiglia di genitori divorziati e con poche possibilità economiche (la madre appena nato aveva pensato di sopprimerlo perché voleva un’altra femmina, il padre si è subito disinteressato di lui e ha passato gran parte dell’infanzia in un istituto – leggendo le note biografiche di Blain ci si rende conto che tutto ciò è in gran parte autobiografico), si accompagna ad un distinto uomo di mezza età, Philippe in un rapporto chiaramente omosessuale. Philippe in qualche modo rappresenta il padre che gli mancava e gli dà l’affetto e il tipo di vita più “agiato” che il giovane agognava. Il film passa attraverso tre stagioni, la primavera del viaggio con Philippe e le prime esperienze teatrali, l’estate del mare e dell’innamoramento per la bionda Marie-Laure (alla quale fa credere che Philippe sia il padrino e di essere un facoltoso studente di una scuola di alto livello), l’autunno (les feuilles mortes) della rottura (e probabilmente della scoperta della menzogna) e della morte. Resterà un amico, Nicolas, lontano dallo snobismo di Marie-Laure, e la speranza di una nuova maturità. Un’immagine per tutte, il primo piano di Philippe in adorazione per il giovane Paul dormiente. Un’immagine d’amore e di generosità sentimentale che tocca il cuore nonostante si potrebbe pensare all’uomo come a poco più di uno sfruttatore sessuale di adolescenti. Il film fu accolto benissimo dalla critica e vinse il Leopardo d’oro a Locarno. Peccato che “il geniale e marginale cineasta che era Gerard Blain sia oggi, più che semisconosciuto, completamente dimenticato” (***). “Un cinema che vive, respira, grida, perché è fisico. Cinema di corpi, prima di tutto, concepito da colui le cui prime professioni sono dovute passare dall’utilizzo del corpo: chi lo ha vissuto ne tiene traccia.” (**).  Nel film appaiono alcune marche (product placement?), la Singer della madre di Paul, delle bottigliette di Coca Cola al bar e la rivista La maison letta da Marie-Laure e amiche. (voto 7+)

Ancora il rapporto padre figlio, in questo caso portato alla disperazione della privazione dello stesso. Paul (lo stesso di Les amis fattosi uomo?) è un uomo che è stato abbandonato dal padre da bambino e con la compagna ha appena avuto a sua volta un figlio. Un figlio a cui vuol dare tutto quello che non gli ha dato suo padre. Per avere i mezzi per mantenerlo (e spinto dalla moglie che vorrebbe una vita migliore con feste e belle auto…) decide di accettare un lavoro illegale che lo porta in carcere negli Stati Uniti. Dopo nove anni di prigione ritorna in Francia dove la moglie ha divorziato da lui ed è riuscita ad avere la vita che voleva sposando un ricco borghese. I due hanno deciso però di far fuori il nostro Paul dalle loro vite e dalla vita del figlio, assistiti dalla legge. Paul: un figlio senza padre e un padre senza figlio. Da questo momento recuperare il figlio e il rapporto con lui diventerà un’ossessione per Paul che comincia a pedinare, spiare e introdursi nella villa dell’ex-moglie e del di lei nuovo marito… fino ad arrivare a “rapire” il figlio per farsi riconoscere come vero padre. Il titolo Le pelican (1974) deriva da una poesia di De Musset che parla di un pellicano che per sfamare i figli, non avendo trovato nulla da dar loro da mangiare, lascia che i piccoli si cibino del suo corpo. E come il pellicano l’unico interesse di Paul è quello di dare affetto al figlio fino alle estreme conseguenze, quell’affetto che i genitori “legali” non gli stanno dando, occupati in feste, uscite serali e vacanze di piacere. Si mettono in evidenza qui i due principali interessi di denuncia da parte di Blain, la paternità deficitaria e la rabbia contro l’opulenza della ricchezza accompagnata dall’aridità dei sentimenti. L’attacco ai borghesi ha un significato decisamente politico in senso lato non in senso stretto. Al riguardo Gerard Blain, ammiratore di Che Guevara, a domanda precisa – non è mai stato attratto dal cinema politico? - risponde: “No, non sono mai stato tentato dal cinema politico. Non perché non abbia conoscenza politiche, ma perché io ho piuttosto una coscienza ideologica (…) Non sarò io a salvare il mondo con dei film! Io sono un utopista. Sono qualcuno piuttosto pessimista riguardo l’umanità, sui rapporti umani in Occidente (…) Sono un militante dell’amore, della famiglia, della generosità verso gli altri.” (*). Ma quanto “politici” sono quei lunghi piani fissi di Paul che con un binocolo, lui trattato come un cane rognoso da allontanare dal proprio figlio, guarda la famigliola “felice” nel lusso, sbeffeggiata con una canzoncina, in colonna sonora, ripetuta all’infinito, vuota e leggera, come vuote ed egoistiche sono le vite dei borghesi che gli hanno rubato l’affetto e l’amore del figlio raccontandogli falsità? Un film a suo modo austero e terribile allo stesso tempo. (voto 6/7). Una borsa di Chanel nei desideri della moglie che sogna ricchezza, un distributore BP, l’hotel Ticino in Svizzera, il Whiskey Black & White, Kodak e la ditta Fumagalli nel product placement del film.

Con Un enfant dans la foule (1976) Blain completa la trilogia di Paul. I tre film, non girati con la sequenza ordinata temporalmente, rappresentano la sua infanzia, la sua adolescenza (Les Amis) e la sua esperienza di padre (Le pelican). Nei tre film e nel personaggio di Paul mette tutta la sua rabbia personale per la mancanza di un padre che si trova lontano, per la vicinanza di una madre che non le dimostra l’affetto che vorrebbe e una sorella maggiore ostile. Proprio in quest’ultimo film, il più propriamente autobiografico, mette il suo dolore (mai urlato) e il suo bisogno di cercare un padre che trova in alcuni uomini più grandi di lui (rapporti sicuramente omosessuali ma consensuali in cui riesce ad ottenere sigarette, denaro e cibo durante il duro periodo della guerra). Uomini lontani dalla loro famiglia come i soldati prima tedeschi poi americani che vedono in lui il figlio lontano, o uomini che hanno una famiglia ma sono infelici. Il film finisce con Paul che si incammina per una strada, per il proprio futuro e sembra proprio che alla fine della strada debba iniziare Les amis… Lo stile dei tre film è sempre diverso, dalla stilizzazione bressoniana del primo passa all’astrazione ossessiva di Le pelican per poi completare con il suo film più “normale”, questo, in cui dà una sua versione della nouvelle vague contro i registi della nouvelle vague… E’ un film pieno di umanità di distacco dagli avvenimenti, Paul passa attraverso tutto con il suo tormento personale cercando di avvicinare chi ha bisogno di affetto, di una vicinanza, siano tedeschi, uomini della resistenza o soldati americani. Emblematica la scena in cui si avvicina ad una donna collaborazionista che è stata pubblicamente svergognata rasandole i capelli e mettendola nuda sulla strada. “Blain sarà sempre a fianco degli esseri soli, in sofferenza e contro la massa urlante e contro tutte le forme di organizzazione (religiosa, militare, politica, militante) (***) (voto 7) Ivory soap, Camel e la rivista Match nel product placement del film.

“Non bisogna piangere, bisogna lottare”. L’antieroe Pierre del film Le rebelle (1980) è, ancora una volta, un ragazzo a cui manca la presenza dei genitori. Il padre è morto in un incidente sul lavoro, la madre a 42 anni di malattia. Pierre è un nichilista che porta all’estremo il pensiero di Gerard Blain “Sono stomacato da sempre ma di decennio in decennio, tutto si degrada sempre di più. Siamo in piena decadenza, in totale inquinamento. Tutto è marcio” (***). Contro tutto e tutti (anche i compagni comunisti rivoluzionari) ama solo la sorella a cui dà quell’amore paterno che lui non ha avuto. Come il Paul de Le pelican rischia di perdere l’unica persona a cui vuol bene perché le istituzioni vogliono allontanarla da lui che non lavora e non può darle un futuro. Pierre ruba, si arrabatta, cerca anche un lavoro “che lo renderebbe schiavo della società”. Quando incontrerà un altro tipico personaggio del cinema di Blain, un ricco affarista di mezza età che si invaghisce di lui, nasce un rigetto verso il capitalista sfruttatore che lo ricatta: o va a letto con lui o non gli darà la possibilità di lavorare. Il personaggio dell’affarista è una degenerazione della figura ambigua, ma paterna e comunque accettata consensualmente dal protagonista, dei film precedenti del regista. Qui Pierre rifiuta la costrizione e neppure vuole sfruttare l’uomo vendendosi. Preferisce svaligiargli la casa e poi addirittura ucciderlo. E quando viene arrestato e allontanato definitivamente dalla sorella, che comincia a piangere disperata, dice la frase che riportavo all’inizio: non piangere, lottare. Un’accusa, un grido di ribellione allo status quo. A coloro che si lamentano senza fare niente Pierre butta la pistola addosso inneggiandoli ad agire. Forse anche una autoaccusa per la frustrante condizione dell’artista Blain che con il suo cinema (per altro negandolo a parole) fa politica contro una società che ritiene aberrante, ma che con la sua espressione artistica non riesce realmente a levarsi il marciume attorno. Il suo film più secco, più bressoniano (molti punti in comune con Il diavolo probabilmente…), alcuni lo accostano, giustamente, anche alla forza bruta e austera allo stesso tempo di Pialat e come quest’ultimo “ancora una volta evita il miserabilismo. La sua austerità ancor più esasperata coincide con una rabbia interiore, non sprovvista di una certa dimensione spirituale che potrebbe sembrare sorprendente da parte di un anarchico, decisamente ateo. Ma le traiettorie seguite dai suoi personaggi sono delle vere via crucis” (***) (voto 7). Il protagonista utilizza per tutto il film una Honda e indossa tute Adidas anche se non penso siano proprio product placement, sono le uniche marche presenti nel film.

I film da regista di Blain non hanno un grande successo e riuscire a farseli produrre è un problema. Dopo Le rebelle, il film più duro ed esplicitamente rabbioso, passano sette anni, durante i quali torna al lavoro di attore e dirige un ritratto in 16 mm del pittore Michel Tournier, prima che possa ritornare al lungometraggio di fiction. Nel frattempo Blain si fa notare per interviste roventi contro il cinema americano, l’imperialismo e il capitalismo venendo accusato di essere comunista. Per assurdo quando porta sugli schermi la sua nuova regia, Pierre et Djemila (1987) è di fascismo e razzismo che stavolta viene incolpato (anche a causa della collaborazione in fase di scrittura di Michel Marin, noto intellettuale di destra). Presentato a Cannes, il film è causa di scandalo. La storia è semplice, una variante di Giulietta e Romeo con francesi e algerini al posto di Montecchi e Capuleti. Due giovani si incontrano, si amano ed ingenuamente pensano che la differenza di etnia e di religione non siano un problema. Lei, di famiglia algerina, si sente francese, lui non pensa minimamente che la loro unione possa essere ostacolata, nonostante le avvertenze del padre. Quando la ragazza viene promessa sposa ad un cugino e deve andare in Algeria per questo, scoppia il dramma. Il fratello integralista uccide il suo ragazzo e lei si suicida per il dolore. Le accuse arrivano soprattutto per alcuni commenti del padre della giovane vittima, apparentemente comprensivo ma certo che un immigrato non potrà mai adeguarsi alla vita in Francia. Cosa che sembra essere confermata dall’azione dell’omicida e all’imposizione del matrimonio. In realtà vi sono altre sfumature che rendono il film più complesso, razzisti che imbrattano e danneggiano la moschea e il Corano spingendo i più irriducibili e orgogliosi degli arabi a non rassegnarsi pacificamente e una parte dei parenti arabi affranti dalla violenza del fratello. La difesa di Blain è quella di sostenere che lui ha raccontato una storia, una storia radicata nella realtà senza voler fare di questo un manifesto politico. Una storia di dolore, intolleranza, soprusi, ma una storia d’amore in definitiva come tante. Raccontata alla sua maniera, senza enfasi, con dialoghi netti e con poche sfumature. Le parole sono più dichiarazioni secche che non veri e propri dialoghi. “Lo stile si è ancora rafforzato, curando paesaggi sonori e visuali. Film sonoro e non parlante: laconico, il dialogo si inclina davanti alla musica dei passi, staccandosi dai suoni urbani, e dall’acqua che delimita gli spazi.” (*) (Voto 6+) I due giovani amanti indossano una tuta Adidas, vanno al mare con una Yamaha e si fermano ad un distributore Mobil. Product placement?

“Non è un film di gangster, ma un film d’amore e un implacabile tragedia”, dichiarerà Blain sulla sua penultima opera da regista presentata alla stampa. In realtà come spesso avveniva nelle sue interviste, in cui parlava dei suoi film, Blain tende a minimizzare il lato politico e nichilista del suo cinema. Anche in Jusqu’au bout de la nuit (1995) è invece evidente che questo discorso "contro" ci sia già dalla frase in esergo di Holderlin: “Al di là del fatto che sono essi stessi un grido di rivolta contro un ordine stabilito, i pazzi, i criminali e i poeti hanno anche per vocazione di mantenere un minimo di insicurezza al fine di evitare alla società un’indifferenza fatale”, che la sua rabbia contro i privilegiati, i ricchi e la società esclusiva che emargina i non eletti, esplode nel personaggio tragico e che affronta il suo destino a pugni chiusi che è François, il protagonista del film. Interpretato dallo stesso Gerard Blain, qui invecchiato, pieno di rughe e già con segni di una malattia che lo segna nel volto stanco, è un rapinatore che entra ed esce dalla galera e quando la madre gli dice che il fratello è morto a causa di un conoscente, non ci pensa due volte a freddarlo. Quando si innamora della bella e fragile Maria (Anicée Alvina) la toglie dalla cattiva strada (si prostituiva per avere i soldi per mantenere la figlia minorenne e senza padre) e per darle una vita dignitosa decide di fare un’ultima rapina che… va male. In fuga e con la polizia alle calcagna, rapisce il ricco presidente del Lione Football club richiedendo un riscatto di 30 milioni di vecchi franchi (“lo stipendio che paghi ad uno dei tuoi giocatori è più alto…”) per fuggire in Brasile. Finirà tragicamente come ogni noir decadente che si rispetti. I corpi suo e della bella Maria abbracciati sul terreno sono un’accusa dolente ad una società che non lascia scampo a chi nasce in povertà ed è costretto o a vendersi o ad una vita di illegalità giustificando, brechtianamente, le azioni del protagonista, in un dialogo tra François e il rapito, in questo modo: “Dopo tutto, entrambi siamo sullo stesso piano. Voi rubate allo Stato. Io rapino banche. Ma io, rapinando le banche, io rubo a ladri peggiori di me. Ci sono più schifezze nelle vostre gesta che non nelle mie. E anche meno rischi…” (**). Una narrazione raffreddata come nel suo stile per questo piccolo film di solo un’ora e 15, rabbioso e malinconico, che potrebbe appartenere alla “factory” di Paul Vecchiali con cui spesso Blain è stato sodale. (voto 7) Si vedono varie auto di marche diverse nel film (Renault, Audi, Volkswagen) ma se product placement c’è sono William Lawson e birra Kronenbourg a farne parte.                                               

“Per quello che presentiva dover essere il suo ultimo film, alle porte della morte, Gerard Blain rifiuta qualsiasi seduzione. Ancor più, si è imposto l’idea di un film erratico, atonale (…) quando il tempo è contato, è possibile che si voglia forzare il tratto e consegnare senza precauzioni l’ideale da sempre preconizzato. Esperienza radicale, a fianco della quale un Bresson diventa amabile divertimento. Ecco qui un film che ignora pelle e muscolo: solo l’osso. La bellezza di una pietra aspra. Ridurre Ainsi soit-il a un meccanismo senza carne sarebbe però erroneo. Di altro si tratta in quest’opera dove l’applicazione maschera la grazia, l’umiltà l’orgoglio e la semplicità il mistero.” (***) Immaginatevi l’ossessione antiborghese di Blain e dei sui personaggi protagonisti che dal François, ladro e fuorilegge, rabbioso contro la società, invecchiato male e vendicativo di Jusqu’au bout de la nuit, si manifesti nel giovane Regis di Ainsi soit-il (2000) in maniera quieta, apatica, stilizzata (se François era interpretato da Gerard Blain e Regis dal figlio Paul Blain, qualcosa vorrà dire…). Ma non per questo meno forte, meno astiosa è la rabbia contro il socio in affari che ha fatto uccidere il padre. Che ha distrutto una famiglia, la madre amata, le due sorelle giovani e spensierate. Lui medita. Legge la lettera del padre che denuncia il socio. Collabora con la polizia ed entra al servizio dell’assassino, un imprenditore ricco, trafficone ed ipocrita come la moglie. Inquadrature secche e lunghe, niente azione come nel film precedente. Ambienti spogli, la poesia di Lorca sottoforma di cantautorato sostituisce il rock di Jusqu’au bout de la nuit. Il noir sostituito da un dramma famigliare. Regis non aspetta che gli eventi si svolgano, che la giustizia faccia il suo corso. Piano medio, una fetta di pane nero cosparsa di formaggio spalmabile e qualche birra. Lunga meditazione prima della vendetta, uno sparo, un omicidio. Un’accusa ad un sistema, ad una società malata. Un bacio alla madre. Fine. Purtroppo è anche la fine del regista che sta sempre più male ma che freneticamente prepara altri progetti anche se è sempre più difficile ottenere finanziamenti. La malattia lo vince nella frustrazione nel dicembre del 2000. Uno dei tanti autori di un cinema laterale e sussurrato, pieni di talento e di cose da dire ma non capito fino in fondo e non abbastanza redditizio per poter lavorare di più (come regista naturalmente, la sua carriera d’attore è altra cosa). (voto 6,5) Un contro-product placement, un invettiva contro Hermes, firma che va bene giusto per giapponesi e vecchi, si dice nel film.

(*) intervista a Gerard Blain su Le cinematographe selon Gerard Blain, Dreamland editeur (**) Anne-Claire et Michel Cieutat, Philippe Roger, ibid. (***) Gerard Blain, legitime defense, articolo di Nicolas Azalbert su Cahiers du Cinema, Janvier 2014. Le traduzioni sono mie.

Stefano Barbacini

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