Leggendo lo stralcio dell’autobiografia dello scenografo Ernst Stern pubblicato su Positif n. 745, vado a recuperare due film di Lubitsch (periodo muto 1922) a cui ha partecipato e di cui scrive. Il primo è Das Weiss des Pharao, ambientato nell’antico Egitto ricostruito nella periferia di Berlino e nel Brandeburgo. “La sceneggiatura era di una debolezza quasi sovrannaturale: una schiava greca fa perdere la testa al Faraone, e la passione gli fa perdere anche il Trono e la vita, vittima dell’amante della donna (non è proprio così ma qualcosa di simile, nel senso che perde tutto ma non è l’amante ad ucciderlo ndr). Ma c’erano delle scene animate, per la precisione una guerra tra l’Egitto e l’Etiopia. In ogni caso, la qualità della sceneggiatura non mi concerneva come direttore artistico. Io dovevo solamente preparare gli edifici, le statue degli dei egizi, i carri da guerra, i costumi degli eserciti egiziano ed etiope, i vestiti del popolo, ecc.- tutte cose che mi appassionavano. (…) Ero dunque nel mio elemento, e i miei progetti furono precisi nei dettagli e nelle iscrizioni.” Scrive Stern nelle sue memorie. E’ un film con masse composte da migliaia di figuranti e lo scenografo ricorda anche come vi fu un tentativo di sciopero tra questi che ad un tratto posarono le armi e si fermarono. Furono messi all’ordine da altri figuranti che non erano altro che veri poliziotti prestati al cinema. Il film non è mai noioso, sì la vicenda è sempliciotta nel suo melodramma storico (a causa di una donna scoppia una guerra, ma questo succede anche nell’Iliade…), ma Emil Jennings nella parte del Faraone riesce a rendere bene la follia d’amore in cui cade, non corrisposto, per la giunonica Degny Servaes che interpreta la schiava (meglio comunque la fascinosa e maliardesca Lyda Salmonova, promessa sposa del Faraone prima dell’arrivo della schiava nei suoi pensieri e causa della guerra). La regia di Lubitsch è, il va sans dire, elegante e ricercata. Abbondano le figure intere e i primi piani alternati dei protagonisti racchiusi tra tondi “rinascimentali” e si barcamena bene anche nelle affollate scene di massa (soprattutto da ricordare la rivolta delle donne quando apprendono che i loro uomini stanno morendo di fatica per costruire la sala del tesoro del Faraone). (Voto 6+)
“Il film che realizzò in seguito Lubitsch fu Montmartre (Die Flamme, 1923). Si svolgeva a Parigi durante il Secondo Impero, e c’erano dei boulevards e dei caffè da disegnare e da costruire. Raccontava gli amori tragici di un giovane musicista e di una prostituta” (sempre dalle memorie di Stern). Il film è in gran parte perduto, rimangono solo una ventina di minuti visibili ma il Filmuseum di Monaco lo ha “ricostruito” utilizzando foto di scena, ma anche i bozzetti dello stesso Ernst Stern preparatori per le scenografie. Naturalmente dare un valore qualitativo al 20% sopravvissuto si fa fatica, possiamo dire che Lubitsch (all’ultimo film tedesco prima di trasferirsi definitivamente a Hollywood) ha ben valorizzato le capacità attoriali (che comprendevano una gamma espressiva vastissima, un modo di recitare decisamente “moderno”) della diva Pola Negri. Nello spezzone sopravvissuto è contenuta anche una scena in cui vi è un confronto carico di tensione sia erotica che psicologica tra i tre protagonisti della storia. Adolphe innamorato di Yvette (Pola Negri) si vergogna di lei per il passato da prostituta e nonostante l’abbia accettata in casa fa fatica a farla accettare alla madre e al migliore amico, Gaston (il terzo elemento della sequenza), che in passato è stato cliente di Yvette. Quest’ultima umiliata dall’atteggiamento di Adolphe fa in modo di sedurre Gaston mentre il compagno è nascosto dietro un paravento per farlo ingelosire. Qui la Negri (che con Lubitsch collaborava da tempo e con lui ha licenziato una Carmen tuttora famosa nella storia del cinema) dà il meglio di sé passando da dimessa e umiliata a tentatrice. Questa sequenza, le foto e i bozzetti ci fanno rimpiangere di non poter vedere il film intero (voto ng)