Simon Rumley lo abbiamo imparato a conoscere in Italia grazie al Ravenna Nightmare e a Nocturno che lo ha sempre considerato bene. E’ un autore cult nel limitato mondo dei fan dell’horror (tanto è vero che è stato chiamato a curare segmenti di vari film ad episodi assieme ad altri registi del genere contemporanei come Little deaths, 60 seconds of solitude in year zero e il più conosciuto The ABCs of death) ma che mi sembra meriterebbe più considerazione perché il suo cinema, curioso, spesso duro e arciviolento, è difficilmente inquadrabile e può piacere o meno ma difficilmente può lasciare indifferenti e incuriositi.
Fashionista è probabilmente il suo film più ambizioso per come cerchi sempre di allontanarsi dalla banalità e ricercare un autorialità non convenzionale. Dichiara nei titoli di coda di ispirarsi al cinema di Nicolas Roeg e mira, diciamo noi, a Bunuel (Quell’oscuro oggetto del desiderio).
In realtà la struttura di base della sceneggiatura è tutt’altro che originale (Eric e April sono marito e moglie e gestiscono un negozio di vestiti, l’Eric’s Emporium. Eric tradisce April con una dipendente, April se ne va conosce Randall e inizia una nuova storia d’amore indecisa se tornare dal marito o continuare la nuova vita). Se nonché i due non sono proprio una normale coppia, Eric è un accumulatore compulsivo di vecchi vestiti e il rapporto di April con l’abbigliamento non è meno bizzarro, feticista odora i vestiti, li tasta per gustarne la consistenza e ha bisogno di cambiarli continuamente.
Quando April, vera protagonista di questa storia (la rotondetta Amanda Fuller dal viso non banale che attrae continuamente la camera di Rumley), incontra l’affascinante e ricchissimo Randall (Eric Balfour visto in varie serie tv con quella faccia da fascinoso figlio di puttana) viene trascinata in un inferno di sesso e violenza (niente da paragonare comunque in questo senso ai precedenti, quasi insostenibili, Red, white and Blue e Johnny Frank Garrett’s last word diversissimi tra loro e da vedere se non siete anime troppo impressionabili…) da cui faticherà ad uscire (e non indenne).
Rumley quindi prende una banale storia d’amore e la fa diventare una discesa nella psiche di April girando come se fosse in preda a deliri psichedelici, montando con scarti temporali le varie sequenze come se la mente della ragazza (e di conseguenza le impressioni di chi guarda) fossero uno specchio frantumato. I temi di Rumley continuano a trascinarsi comunque da un film all’altro nonostante, ripeto, le varie opere sembrino completamente non apparentabili tra loro, e riguardano i sentimenti di vendetta, la violenza insita nell’animo umano, il frantumarsi dei sogni di una vita “normale”, l’indecisione identitaria e il doppio di se stessi.
Una filmografia quella del regista inglese (in questo caso trasferitosi in Texas dove si trova l’Eric’s Emporium) per chi non l’ha mai affrontata da recuperare se siete amanti di un cinema che osa, magari spesso sbagliando, ma sempre senza condizionamenti. Cominciando magari proprio da questo Fashionista.
Trovandoci in un’ambientazione piena di vestiti le citazioni di Valentino, Versace ma, soprattutto come dice Randall, McQueen sono product placement gratuito come probabilmente Doctor Martens e la Coca Cola. Più sospetti i distributori di sapone GOJO e sicuramente local placement i vari Sylvester Pizza e i locali del territorio ringraziati nei titoli di coda.