Film perfetto per rappresentare la filosofia della sezione Nuovimondi, ovvero film indipendenti in formati o materiali non usuali, è Failed state di Christopher Jason Bell e Mitch Blummer. Bell ha già presentato un opera al Torino Film Festival nella sezione Onde, ovvero il nome precedente di Nuovimondi con selezionatore sempre Massimo Causo, il suo esordio Incorrectional. Failed state è uno sguardo semidocumentaristico su Dale, esodato che si arrangia ora con un lavoro precario, ovvero fa il “raider” ma a appiedato. Con un borsone in spalla consegna prodotti macinando chilometri a piedi o in Metropolitana, in una New York periferica piuttosto sporca e decadente, incontrando strani personaggi e vecchi amici durante le sue camminate con cui scambia opinioni sulla sua vita e sulla dolorosa perdita recente della madre. Il film girato con stile underground è uno sguardo preoccupato sull’esistenza misera dei tanti precari senza assicurazione medica e sempre a rischio di finire sotto la soglia della povertà. I dimenticati dal Sogno Americano. (Voto 7,5). La borsa che porta con sé Dale porta una grossa scritta Florida, lui indossa scarpe Adidas, tra i vari prodotti che consegna abbiamo Nintendo, Acer, Jameson, trapani Ryobi. Un amico si vanta di imbottirsi di Klonopin e il McDonald’s del JFK Airport viene definito come il migliore della città, forse quest’ultimo vero product placement.
L’esordiente Nakano Kota deve aver avuto molti dubbi su come finire il suo film Retake perché questa è la domanda che si fa la sua alter ego regista del film nel film in una sequenza finale che sembra un loop con quasi una decina di finali differenti. Estate alla fine dell’anno scolastico, un liceale si fa coinvolgere da un’energica compagna (della quale è evidentemente attratto) nella realizzazione di un film mettendo insieme una mini-troupe di 5 persone. La prima parte di Retake è un film completo, mette in mostra amori e contrasti adolescenziali non particolarmente originali ma con una spigliatezza e una voglia di cinema che rende il tutto piacevole. Poi però Kota evidentemente vuole rendere il tutto più originale e propone altri due finali del suo film e del film nel film (è evidente che la voglia di fare un saggio metacinematografico sul montaggio e sul lavoro registico è ben presente, non senza presunzione, nelle idee del regista): uno più conciliante rispetto al primo (che finiva con il film non finito), uno più drammatico, quasi tragico e poi altri che differenziano di poco in cui la domanda è sempre quella come finire il film? Forse la soluzione è nel non finirlo… (Voto 6,5 se fosse finito nella prima parte, 6 essendoci anche la seconda). La macchina fotografica utilizzata anche per le riprese dall’operatore del film nel film è una Lumix, la protagonista calza New Balance (e anche un’altra ragazza ha una t-shirt di questa brand) e insieme a Tokai electric guitar, amplificatori Marshall e computer HP sono il product placement inserito nel film.
“Diario dei difetti di Tiago scritto per il padre Raul” si presenta così il protagonista di India narrando la propria storia, intellettuale che ha perso tutte le sue opportunità con la moglie emigrata in Angola, il figlio con problemi psicologici (“o forse è solo un normale adolescente”), il padre anziano e lui ridotto a dirigere un B&B e a far da guida a turisti. Al momento una sola, una vedova brasiliana, che si affida a Tiago per farsi raccontare Lisbona. Irascibile, insoddisfatto e prolisso il nostro la accompagna con il padre raccontando con fiumi di parole storie e leggente del Portogallo e i protagonisti delle tante rivoluzioni (ma non quelle fasciste!). Una guida perlomeno inconsueta mentre il film scorre tra ironia, goliardia, erotismo ma anche malinconia e deriva mortuaria. Il regista Telmo Churro si propone come continuatore del cinema portoghese indipendente e anarchico, quello che ha visto nel grande Monteiro il suo più peculiare esponente. Il difetto del film è la sua lunghezza, qualche taglio avrebbe evitato che lo sviluppo filosofico-visionario divertente e stimolante del film rischiasse l’appesantimento dell’ultima mezzora. (Voto 6,5)
Sofia è una studentessa di 23 anni senzatetto che si mantiene facendo tatuaggi. La sua è una scelta di vita “libera” senza padroni e senza genitori che “non ti lasciano andare, non ti lasciano vivere, ti stanno addosso”. Una scelta di vita però che ha i suoi problemi perché vivere così all’aria aperta, tra le intemperie (seppur in Brasile), le scomodità e le violenze (Sofia subirà un furto del telefonino e di tutti i suoi averi) è un prezzo duro da pagare, ad esempio anche solo poter avere rapporti sentimentali (i momenti più riusciti del film sono proprio quelli di affetto che si scambiano lei e l’amica/amante, girati con una delicatezza poetica) è un problema. Non è neppure vero, come le dice un amico “che è bello vivere senza dover pensare ai soldi, senza dover fare i conti”, perché prima o poi i conti bisogna farli… Sofia foi del brasiliano Pedro Geraldo è un sentito ritratto della sua protagonista che sarebbe piaciuta a Bresson e Pialat, ma seguita dal regista con stile documentaristico e realista come avrebbe fatto Pedro Costa. (Voto 6).
Nuovo film dell’autore del bellissimo Ghost Tropic e dello sconcertante esordio Violet, il belga Bas Devos ancora in esplorazione dei sentimenti e delle difficoltà degli emigrati a Bruxelles in Here. Il protagonista è un operaio rumeno che sta per ritornare in Romania per le vacanze e sta meditando di restarvi a lungo. Prima di partire incontra una biologa cinese con cui si trova in sintonia e tra una zuppa di verdura di cui è specialista e un’analisi di un muschio di cui è esperta lei, chissà che non nasca un amore e che la Romania non possa aspettare… A corollario della storia dell’incontro dei due tanto verde, tanta pioggia e tutto lo sguardo molto peculiare dell’intimista poetico che è il regista belga. (Voto 6,5). Lipton tea possibile product placement.
Matti Harju è sperimentatore molto personale che già abbiamo incontrato in Onde nel 2018 con il suo New Hera. Anche allora abbiamo espresso dubbi sull’autoreferenzialità fine a se stessa del suo cinema che sicuramente è fatto senza soldi e con l’intento di dare esperienze sensoriali più che di raccontare o esplorare le potenzialità narrative. Ci prova questa volta con uno pseudo thriller, Natura, che però viene lasciato andare a se stesso. Il tentativo di Harju ricorda quelli di Jon Jost che a suo tempo tentava di entrare nel genere senza fondi per esplorarlo essenzialmente con la sua sperimentazione. Ma Jost era più addentro alla visione e alla cinefilia, invece è evidente che a Harju interessano più le sperimentazioni sull’immagine, sulla natura e sulle rovine industriali che mette all’inizio e alla fine della sua piccola opera che ha più attinenza alla videoarte che non al cinema. (Voto 5,5)
Camera d’or a Cannes, con questo prestigioso riconoscimento si presenta al Torino Film Festival il film vietnamita Inside the yellow cocoon shell di Thien An Pham, sicuramente un regista da tenere d’occhio nel futuro, potrebbe diventare un nuovo Hou Hsiao-hsian o un nuovo Tsai Ming-liang. Tre ore di durata, piani sequenza e immagini fisse, panoramiche e carrellate infinite. Tre ore per raccontare il viaggio alla ricerca del fratello per comunicargli la morte della moglie (che ha abbandonato) e che il figlioletto è rimasto orfano. Intanto incontriamo personaggi che ci avvicinano alla storia militare del Vietnam, al rapporto con la religione e alla spiritualità, ai rapporti di coppia anche. Immagini intense e poetiche in un Vietnam rurale e piovoso, acqua e terra, anima e corpo. (voto 7+) Molto product placement che non ci aspettavamo in un film di questo tipo, si beve molta birra, Bia Viet ma si pubblicizza la Ba hoa anche se poi non si va troppo per le spicce a farsi lattine di Heineken, si cita Playstation, si chiede Red Bull, si indossano infradito Gida e, principalmente, il protagonista gira per il paese con uno scooter Honda.