Nell’estate del 1963 si svolse la memorabile marcia su Washington per manifestare a favore dei diritti civili degli afroamericani, 200.000 persone ne presero parte. Fu l’evento in cui Martin Luther King fece il suo discorso più ricordato di tutti i tempi, quello del “I have a dream”. Il film The bus (1965), documentario in forma di road movie, di Haskell Wexler (regista vicino all’underground e al rock che ha documentato in più riprese, nonché grande direttore della fotografia per capolavori come Qualcuno volò sul nido del cuculo e La conversazione), restaurato dall’UCLA e presentato al Festival del Cinema Ritrovato 2024, vede il regista e un paio di operatori seguire un gruppo di 37 persone partite dalla California per arrivare a Washington in tre giorni di viaggio. Persone comuni, afroamericani ma anche bianchi che appoggiano la causa, che si ritrovano sul bus “spiati” dalla camera che ne ascolta i pareri, i discorsi, le motivazioni ma senza diventare troppo schematico, molto libero nel documentare anche il viaggio stesso con le pause per i pasti, i paesaggi che scorrono dai finestrini. Un viaggio per la libertà, individuale e collettiva, con una fotografia in bianco e nero sgranata e potente. (voto 6,5)
La Nouba des femmes du mont Chenoua (1978) è un altro film che senza gli sforzi (non ancora arrivati ad un traguardo definitivo a causa di una burocrazia algerina che non “libera” il film per poterlo restaurare a dovere, così che la copia mostrata al Festival del Cinema Ritrovato 2024 presenta colori deteriorati derivanti da un originale in 16 mm in pessime condizioni) della Cineteca di Bologna e di altre meritorie fondazioni che si impegnano nel recupero di gemme lasciate nei magazzini a marcire, probabilmente nessuno avrebbe più rivisto. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1979, vinse il premio della critica. La regista è la scrittrice algerina Assia Djebar che qui decide di cimentarsi nel racconto per immagini. La protagonista Lila torna al villaggio natio 15 anni dopo la fine della guerra di liberazione. Qui incontra persone tramite le quali ricorda gli orrori e i patimenti dell’occupazione francese e della guerra. Tra immagini d’archivio e approccio documentaristico di luoghi e persone, la regista costruisce un film di grande interesse “storico”, strutturato in cinque movimenti, quelli della Nouba, musica tipica araba-andalusa. (voto 6,5)
Uno dei film muti di Michael Curtiz ungheresi, quando ancora si firmava Mihaly Kertesz, è The last dawn (1917) presentato a Bologna, un “esotismo” con un avvio curioso in cui Harry Kernett, annoiato dalla vita, cerca di suicidarsi ma viene bloccato da lord Harding di cui diventa amico. Scoprendo che Harding ha difficoltà finanziarie notevoli (ha già dilapidato il patrimonio della nipote che doveva amministrare rischiando grosso quando questa, nel giro di un anno, diventerà maggiorenne), Kernett gli propone un patto azzardato. Se Harding gli dà i soldi per vivere un ultimo anno tra viaggi e piaceri, Kernett accetta di morire alla scadenza dell’anno così, stipulando una remunerativa polizza assicurativa sulla vita, Harding può recuperare i soldi che gli servono. A malincuore il lord accetta e Kernett parte per mete esotiche (l’India) dove incontra una fatalona di cui si innamora. Alla fine dell’anno però decide di mantenere il patto e torna in patria per mettere fine alla propria vita scoprendo però che la donna di cui si è innamorato non è altri che… la nipote del lord! Film che gioca sulla spettacolarità di danze, scenari e costumi senza vezzi artistici con il solo scopo di far dimenticare allo spettatore che il film era stato creato “nel grande caos dei cupi calvari sovrumani, in un’epoca di sangue e di lutto” (dal Catalogo del Festival del Cinema Ritrovato 2024). (voto 6-)
Negli ultimi due film visti al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna del regista giapponese Kozaburo Yoshimura ritroviamo le caratteristiche tipiche del suo cinema (che è “scritto” principalmente dallo sceneggiatore con tendenze “socialiste” Kaneto Shindo). Donne imprenditrici con amori contrastati, mondo operaio e lotte per i loro diritti, parallelo mondo artistico, geishe nei quartieri di Kyoto con gli affaristi ricchi che a loro si accompagnano e sprazzi di vita dei ceti più poveri. Ma rispetto ai film meno recenti, quelli in bianco e nero visti ad inizio festival, in cui il rigore stilistico tipico del cinema giapponese dominava la regia, quelli successivi a colori sono molto più “passionali” e caldi, melò che ricordano più il cinema di Douglas Sirk che non quello dei maestri giapponesi. E’ così per River of the night aka Undercurrent (1956) e A woman’s uphill slope (1960). Lo schema è simile per le due opere (anche se la sceneggiatura del primo non è di Shindo ma di Sumie Tanaka), un’imprenditrice di successo (nel primo una disegnatrice di kimono, nel secondo una produttrice di dolci) si innamorano di un uomo (nel primo uno scienziato di fama, nel secondo di un artista, disegnatore ritrattista) di un amore impossibile dato che entrambi non sono liberi (il primo ha una moglie malata che sta per morire, il secondo moglie e figli piccoli) e alla fine saranno costrette a scegliere di buttarsi sulla loro professione che le rende donne indipendenti. Nel festival abbiamo potuto vedere solo alcune opere del prolifico regista (più di 50 film girati) e su questi ci siamo fatti un’idea con la voglia (che ho paura resterà tale) di vedere il resto della sua produzione. La produzione di Yoshimura è varia, ma, per citare Tadao Sato, “la sua forza più grande sono i film realisti, basati su una conoscenza dettagliata della struttura sociale, [...] non semplici denunce sociali ma film che approfondiscono l’elemento umano della storia”. Yoshimura era un abile artigiano, un drammaturgo profondo e (come attestano le eccezionali interpretazioni di Machiko Kyo, Fujiko Yamamoto e Mariko Okada tra le altre) dotato di grande sensibilità nel dirigere le attrici. (Dal catalogo del Festival del Cinema Ritrovato 2024) (voto 7+ ad entrambi)