“Solo ora Franz, senza domani” dice tra il disperato e il disilluso la contessa Livia Serpieri (Alida Valli) al suo amante, il tenente austriaco Franz Mahler (Farley Grangier) dopo l’ennesimo atto sessuale in una stanza in affitto a Venezia, sapendo che quella frase la ripete ogni volta, ma proprio non ce la fa a star lontana dalla sua passione. Sposata e patriota, nel 1866 quando l’Italia sta per riconquistare il Veneto a danno degli austriaci e l’amato cugino (Massimo Girotti) è un patriota che vuol aprire la strada alle truppe garibaldine, la donna si perde. Il suo pazzo amore per un farabutto e vigliacco austriaco la farà diventare succube e traditrice arrivando al punto di cedere i denari che gli sono stati dati in custodia dai rivoltosi per la causa italiana all’uomo che l’ha perduta, l’uomo che sta con lei solo per motivazioni personali, per sfruttarla. Senso (1954) è il primo lungometraggio di Visconti da Bellissima (1943), nel periodo il regista si era dato al teatro; proprio dal teatro ricomincia la sua avventura cinematografica con le splendide sequenze iniziali girate alla Fenice di Venezia mentre si rappresenta Il Trovatore di Verdi, comincia così il periodo barocco e decadente che renderà famoso lo stile di Visconti nel mondo intero (“Il tono volutamente enfatico e teatrale equivale ad una dichiarazione di ideologia e di poetica”; ”Lo specchio e il velo, il contemplarsi e il nascondersi, diventeranno le costanti del film” scrive Alessandro Bencivenni in un vecchio Castoro dedicato al regista). Tratto dal melodramma di Camillo Boito, letterato appartenente alla Scapigliatura e fratello del più famoso Arrigo, librettista d’opera, mette in mostra le doti pittoriche (l’utilizzo del colore come elemento drammatico delle sequenze) e rievocative del regista che qui si rifà al mondo operistico e all’iconografia risorgimentale per le scene di battaglia, e scatena polemiche sulla rivisitazione critica del “racconto” del Risorgimento (il film fu politicamente criticato e di fatto rimaneggiato). Le scene melodrammatiche invece si svolgono in interni sfarzosi (Villa di Aldeno) o per le vie di una Venezia notturna vuota. Come aiuto registi vi sono nientemenoche Francesco Rosi e Franco Zeffirelli. Il grande cinema italiano sta iniziando ad imporre tutta la sua varietà di visioni autoriali. “Le scene più inquietanti (…) non sono le scene d’abbandono ma quelle in cui la contessa insegue il suo amante fino alle camere degli ufficiali che costellano la sua visita di gesti equivoci e di risa sprezzanti. L’incongruità della sua presenza in questi luoghi, che risaltano la sua eleganza patrizia, genera un profondo sentimento di debolezza” così sottolinea le capacità di Visconti di rappresentazione della decadenza, dello scivolamento nell’umiliazione senza freni della protagonista, Pascal Binétruy nello speciale su Visconti su positif n. 706. Leonard Matlin vi vede l’unione del neorealismo dei suoi primi film con il lussureggiante romanticismo dei suoi ultimi (affermazione un po’ forzata a mio modesto parere, mi pare più acuta quella di Aristarco quando scrive di vedervi un passaggio dal neorealismo, inteso come registrazione della realtà, al realismo, inteso come interpretazione critica di essa) dando due stellette e mezzo; massimo dei voti invece per Morandini (“Al di là di alcune forzature ideologiche e psicologiche, scandito da un’ammirevole coesione cromatica e scenografica (…) è un dramma di lussuria e di morte che si sviluppa con l’implacabile necessità di una tragedia romantica che trova nell’epilogo l’impietosa sconfessione del proprio romanticismo”) e Mereghetti (“Se il melodramma è il modello di comportamento di Livia e di Franz, Visconti sembra voler evitare ogni coinvolgimento emotivo nei loro confronti, anche se poi, come sempre, rimane affascinato dal crollo del loro mondo.”) (voto 7/8)
Nel 1957 Visconti torna al bianco e nero avvalendosi della bellissima fotografia di Giuseppe Rotunno e licenzia un film ibrido che mette assieme la letteratura russa, Notti bianche di Dostoevskij, con il proprio cinema precedente e con il cinema italiano del tempo. La forma letteraria di Senso si “sporca” con il richiamo al neorealismo rosselliniano ambientandolo in una città ancora sfregiata dalle rovine della guerra, con gente che vive sotto i ponti; Ossessione (il film inizia davanti ad una stazione di servizio che ricorda quel noir e il “fantasma” di Clara Calamai reincarnatosi in una prostituta, coscienza nera del protagonista, si aggira per la pellicola) si confronta con la commedia popolare di Bellissima (le due donne che coccolano e curano il protagonista, il venditore di giocattoli, l’osteria e i bar); la commedia musicale anticipando quella degli “urlatori” con il dramma sentimentale alla Matarazzo. Per questo suo capolavoro Visconti chiama con sé due mostri sacri del cinema italiano e francese, Mastroianni e Marais, a contendersi l’austriaca Maria Schell, la donna con gli occhi più dolci e tristi del cinema. Sfrutta gli elementi, tanta acqua (come in La terra trema), vento come turbamento d’animo, fuochi per riscaldare i miseri senzatetto, la terra ricoperta di neve in un finale poetico e lacerante. La storia è quella del tipico “idiota” perdente Dostevskijano (Mario/Mastroianni) che si innamora dell’inconsolabile ragazza (Natalia/Schell) in attesa da più di un anno dell’uomo (Marais) che l’ha ammaliata e che le ha promesso di ritrovarsi alle dieci di sera in un certo punto della città, il punto dove lei incontra Mario. Per varie sere lei racconta a lui i suoi patimenti, lui non può più fare a meno di lei, le confessa l’amore, lei sembra cedere ma poi Marais ritorna… e Mario deve tornare alla sua vita infelice. La vicenda viene raccontata in una città completamente ricostruita in studio “nel teatro 5 di Cinecittà, la straordinaria scenografia di Mario Chiari e Mario Garbuglia: astratta, eppure verosimile; avvolta in una nebbia di tulles”, in pratica Visconti “ricostruisce” il realismo che fa da sottobosco alla storia sentimentale. “Tutto deve essere come se fosse finto; ma quando si ha la sensazione che è finto, deve diventare come se fosse vero”, diceva Visconti. (da, come la precedente citazione, Luchino Visconti, Castoro, di Alessandro Bencivenni). (voto 8) Il distributore di inizio film è Esso e un’insegna davanti a due bar è Coca Cola, due evidenti product placement.
Fondere il neorealismo con l’anima letteraria e teatrale dei suo lavori per il palcoscenico per poi giungere al decadentismo piccolo borghese che è la sua cifra più autobiografica, riesce a Visconti in Rocco e i suoi fratelli (1960). Il racconto della vedova Parondi che si prende i quattro figli dalla Lucania per emigrare a Milano dove già si è accasato il quinto figlio, viene diviso in cinque capitoli da Visconti. Capitoli che però non sono episodi a sé stanti e non interrompono il flusso narrativo, semplicemente si focalizzano (ma neanche tanto) sui cinque figli mostrandone il carattere e la tipologia umana che il regista vuole risaltare. Vincenzo è fidanzato con Ginetta, anch’essa figlia di immigrati, ed ha un lavoro. L’arrivo dei parenti lo mette nei guai perché vi è subito un litigio tra le due famiglie (l’emigrante che raggiunta la stabilità vede come un pericolo l’arrivo di altri migranti anche se sono degli stessi luoghi). Il suo sogno di vita è quello di sposarsi, lavorare e fare figli. Piccoli traguardi che rischiano di saltare. Costretti a vivere in un sottoscala (“ma poi vi fate sfrattare e vedrete che un posto il comune di Milano ve lo trova”, espediente da disperati), tra i fratelli si staccano Simone e Rocco. Il primo affronta la vita di petto e con incoscienza. Cerca di diventare pugile e dove non arriva lo fa seducendo e rubando. I due primi episodi, Vincenzo e Simone, appartengono alla vena neorealista de La terra trema e Bellissima, ma con il terzo, quello dedicato a Rocco, Visconti si riaggancia al Dostoevskij già frequentato nel precedente Notti bianche, infatti il personaggio è costruito sulla figura dell’idiota dostoevskijano, buono all’inverosimile, legato al fratello Simone con propensione al martirio cristiano, disposto all’autodistruzione pur di aiutarlo. Succede che Simone e Rocco si innamorano della stessa donna, la prostituta Nadia, lei prima va con Simone senza amarlo ma poi trova in Rocco l’uomo che può farle cambiare la vita e, ricambiata, se ne infatua. Simone quando lo viene sapere violenta Nadia e picchia Rocco. Quest’ultimo decide di lasciare Nadia spingendola a tornare da Simone perché altrimenti questo si distruggerebbe. Invece è proprio questa decisione a perdere sia Simone che Nadia e porterà all’omicidio (in pieno melodramma da opera lirica) della donna in una delle più belle scene del cinema viscontiano ambientata all’Idroscalo di Milano. Il disfacimento familiare che appartiene più al filone del decadentismo borghese che non alla rappresentazione di una famiglia neorealista, viene “osservato”, nei due capitoli finali, da Ciro e Luca, i due figli più giovani. Il primo che crede nell’onestà del lavoro, lui operaio dell’Alfa Romeo con propensione “comunista”, pronto a denunciare il fratello assassino contro il parere degli altri in nome della giustizia proletaria contro il lassismo e il degrado personale tipicamente borghese (il sogno di grandezza e l’amore malato), e il secondo invece che sogna di poter tornare in Lucania insieme a Rocco, colui che afferma “se fossimo restati al paese nulla di tutto questo sarebbe successo”. Un film complesso e denso sia stilisticamente che narrativamente. Visconti gira in una Milano periferica, spesso notturna e piena di neve, pioggia e nebbia con un cast misto italiano (Renato Salvori è Simone, Claudia Cardinale Ginetta con parti minori per Paolo Stoppa, Corrado Pani, Adriana Asti), francese (Alain Delon è Rocco, Annie Girardot Nadia e poi Suzy Delair, Max Cartier e Roger Hanin) e greco (Katina Paxinou è la madre, Spiros Focas Vincenzo). (voto 8) Detto dell’Alfa Romeo, il film è pieno di product placement. Le brand tipicamente milanesi di allora spiccano nelle panoramiche, Alemagna e Standa, poi vi sono marche sportive nelle scene di boxe, Leone per l’attrezzatura e Ignis noto sponsor sportivo; non mancano le bevande, su tutte Coca Cola ma poi anche Martini, San Pellegrino, Martini, Lemonsoda, Oransoda, liquore Strega e un particolare sui vini La Collina. Infine spazio anche per Buitoni.