Blind spot fa parte di una tendenza del cinema francese, non dichiaratamente organizzata, di cui fanno parte, ad esempio, Vincent n’a pas d’ecailles, Madame Hyde, La belle et la belle, in cui il fantastico è un puro espediente per parlare del “normale”. Sono film che hanno più a che fare con il trattato sociologico che non con il film di genere. Vere proprie osservazioni della vita in cui l’espediente del fuori norma serve per dare più incisività e interesse all’osservazione delle vicende umane. Film che si fa fatica ad inquadrare e tutto sommato (consciamente) inconcludenti. Per questo non a tutti piacciono (sembrano mirare ad un certo pubblico, quello di genere, ma poi vanno a parare da altra parte verso il film d’autore da cui vengono snobbati per l’innesto del fantastico. Insomma un circolo vizioso). A noi che non abbiamo settarismi di sorta da vantare questo cinema piace. Ci piace la loro delicatezza di tocco, la loro curiosità, l’impalpabile che rappresentano.
Blind spot ci è sembrato il migliore di questi. Il protagonista è Dominik, un black con il superpotere dell’invisibilità. Superpotere che non gli serve a nulla perché conduce quella che definisce una “vita di merda”, lavora come “imbustatore” di chitarre, cioè si occupa di inserirle nelle loro custodie per la spedizione. Quindi un’esistenza da ausiliario dell’arte da cui è escluso (mentre i genitori erano musicisti di discreta qualità). Inoltre ha un rapporto insoddisfacente con la propria compagna che lo ama ma con la quale lui non riesce ad impegnarsi. L’invisibilità più che un’opportunità è un peso per chi ce l’ha. Intanto diventarlo e “uscirne” non è così semplice, comporta sforzi fisicamente debilitanti, poi il nostro è costretto ad aggirarsi completamente nudo per metà film perché, correttamente, per essere totalmente invisibili non bisogna indossare ne vestiti ne scarpe (e capita che se vai in tilt e perdi l’invisibilità ti ritrovi nudo per strada e che se devi fuggire da un luogo e fare molta strada per rientrare ti si rovinino i piedi nudi…). L’unica cosa a cui gli serve è poter spiare gli altri e soprattutto le altre (prima cosa che giovani maschi pensano ragionando sull’essere invisibili: what if…). Esistono nell’ipotetico mondo di Blind spot anche altri “invisibili” che sfruttano la cosa per sopravvivere diventando fenomeni da baraccone oppure “sbroccano” e diventano assassini che in metropolitana spingono la gente sotto i treni facendo credere a suicidi. Insomma il superpotere è più un problema che non un’opportunità. A meno che tu non voglia delinquere per ottenere una rivalsa sulla vita come gli propone l’amico d’infanzia, ma Dominik non è persona di questo tipo.
E’ incuriosito e probabilmente innamorato di una vicina cieca, che serve al film per strutturare meglio le considerazioni sull’essere invisibili agli altri senza bisogno, appunto, di esserlo fisicamente. Essere emarginati ed esclusi e solo una persona che non vede riesce veramente a vederti. Insomma filosofia spicciola ma senza presunzione da intellettuale, solo una piacevole osservazione di un’umanità altra sì ma di una normalità assoluta. Il film sembra non portarci da nessuna parte, un viaggio senza meta, ma a noi è dolce naufragar in questo mare.
Un piccolo film di una tenerezza mai stucchevole in cui il contrasto tra l’esser speciali e il non esserlo è il fine stesso dell’opera e lo stesso contrasto lo abbiamo avuto quando siamo venuti a sapere che un film di questa delicatezza è stato concepito e realizzato da due grossi e barbuti registi francesi presenti alla proiezione al Trieste Science Fiction Festival 2019 da cui ti aspetteresti ben altro…
Dominik lavora alla Woodbrass, nota brand di vendite di strumenti musicali e vende chitarre e strumentazione Roland. L’amico d’infanzia alla Bendix. Sono questi i principali product placement del film ma non sono gli unici. Abbiamo anche i sigari Partacas con le cui scatole il nostro costruisce chitarre artigianali, una pubblicità ad una fermata di autobus degli Hotel One & Only, una sveglia Grundig e il motore di ricerca QWant.