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CINEMA
2 Ottobre 2024 - 20:53

DIARIO VISIVO (Cinema di Shanghai 1920-1950)

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Focus sulla star Ruan Ling Yu
DIARIO VISIVO (Cinema di Shanghai 1920-1950)

Un interessante articolo sulla retrospettiva sul cinema di Shanghai tra gli anni ’20 e gli anni ’50 del secolo scorso tenutasi al festival dei 3 continenti di Nantes del 2013 (Shanghai Blues, Charles Tesson, Cahiers du cinema, Nov2013) è la scintilla che accende il mio interesse su un cinema praticamente invisibile da cineteche e spazi cinefili. Cerco di recuperare qualcuno dei film citati.

The Goddess (1934) fu l’apice della carriera di diva di Ruan Ling-yu, l’attrice più amata dell’industria cinematografica cinese degli anni Trenta, una divinazione pari a quella di un Rodolfo Valentino a Hollywood che ha avuto una fine simile, entrambi morirono giovani ed entrambi ebbero funerali a cui accorsero migliaia di persone in lacrime. La fine della bellissima e bravissima Ruan fu ancor più tragica di quella di Valentino, infatti morì suicida a soli 25 anni non ancora compiuti. Ma tornando al film il titolo Goddess non si riferisce alla dea Ruan ma al termine che veniva usato a Shanghai per definire le prostitute da strada, le passeggiatrici. Il personaggio interpretato da Ruan è una di queste. Costretta “alla vita” dalle ristrettezze economiche (saranno molti i film mostrati al festival sopracitato ad occuparsi delle condizioni di povertà della popolazione di questa grande città nel periodo tra le due guerre mondiali) per poter crescere il figlio ancora in fasce, non avrà pace perché prima verrà presa sotto la “protezione”, in realtà costretta, da un gangster locale che la minaccia di toglierle il bambino, poi additata dai genitori degli scolari compagni del figlio in età più avanzata perché conoscendone la professione vogliono che il ragazzino sia cacciato da scuola, infine derubata dei risparmi dal gangster e incarcerata dopo che, disperata, lo ucciderà con una bottigliata in testa. Il regista è l’esordiente Wu Yonggang che diventò famoso proprio con questa opera e poi finì in disgrazia perché considerato troppo pessimista e non in linea con il credo comunista. “Scenografo di formazione, ammiratore del cinema muto tedesco e americano (…) L’attenzione alle scenografie, agli accessori e ai costumi (…) si sente in The Goddess, principalmente con le vesti dell’eroina appese al muro, che rappresentano la sua doppia vita” (Charles Tesson su Cahiers du Cinema Novembre 2013, trad. mia). Il film ha un certo fascino melodrammatico e iconico proponendo coraggiosamente come degna di rispetto anche una “donna perduta” come la protagonista. A tratti esagera in realtà a voler dimostrare questo assunto utilizzando i sermoni (scritti in didascalia) del preside e cadendo a tratti nel patetismo, ma l’interpretazione della Ruan è in effetti piena di fascino e carisma. Un film da riscoprire, a livello di opere hollywoodiane del periodo del muto ben più celebrate. (Voto 6/7) Nelle prime scene in primo piano una scatola Nestlé, product placement voluto?

Song of the fishermen (1934) è un film muto con alcune sonorizzazioni (pianto di bambini, la canzone del titolo) ma con didascalie al posto dei dialoghi. E’ un film di valenza sociale che, ben prima di Visconti ma non certo con la stessa qualità, mette in scena i problemi economici dei pescatori in crisi. Il film è un susseguirsi di tragedie. Due gemelli nascono da una famiglia di pescatori che non hanno soldi e la madre fa da serva ad una famiglia di ricchi. I due gemelli, un maschio e una femmina, cresceranno insieme al figlio unico della famiglia ricca ma con poco rispetto da parte di questi ultimi. Muoiono un po' tutti, chi di vecchiaia, chi si suicida, la madre diventa cieca e i due gemelli restano soli cercando di sopravvivere alla miseria più nera cercando lavoro in città con poca fortuna. Nel mentre il figlio dei ricchi, che ha un debole per la ragazza povera, se ne è andato a Shanghai a studiare per diventare ingegnere. Al suo ritorno parteciperà al dramma finale della morte del gemello maschio in mare. Il film che stempera un po’ con qualche passaggio umoristico (alla fine il gemello maschio è un po’ un pasticcione da comiche del muto) la drammaticità degli eventi, pone con forza il problema della povertà nella società. Qualche passaggio poetico, qualche altro potente, e in generale con un buon impatto visivo ma troppo spezzettato. (voto 6+)

Dello stesso regista, Cai Chusheng, il successivo New Women (1935) un accorato film “femminista” in cui si reclama l’autodeterminazione della donna e la sua indipendenza dal supporto economico dei mariti. Lo stile del regista si evolve sensibilmente rispetto al precedente, Cai sembra guardare alle innovazioni del cinema francese dei L’herbier e Epstein con sovrapposizioni, split screen, e trovate intelligenti e artisticamente interessanti come, ad esempio, il finestrino di un treno che diventa schermo in cui sono proiettati i ricordi della protagonista. Quest’ultima è Wei Ming, una donna brillante sul punto di ottenere successo dato che, oltre al lavoro come insegnante di musica in una scuola, scrive romanzi e canzoni. Purtroppo per lei, in un mondo dominato dagli uomini, se non si accetta di diventarne “schiave” come lei stessa dice, non è possibile essere libere e far carriera. Infatti rifiutando di andare in hotel con un ricco industriale, che è anche finanziatore della scuola, perde il lavoro proprio quando sta tornando in città la sorella a cui in gioventù aveva affidato la figlia avuta da un matrimonio infelice. La bimba si ammala (nei melodrammi di Cai Chusheng la tragedia sembra inevitabile) e la donna non ha i soldi per farla curare. Il romanzo, che ha scritto e che le viene pubblicato solo perché è una bella donna, non le porta nessun guadagno anche perché la sua figura sarà denigrata pubblicamente sui giornali da un giornalista che pure aveva cercato di avere una storia con lei ed era stato rifiutato. Arriverà anche ad accettare di prostituirsi per salvare la figlia, sarò schiava solo per una notte, dirà. Distrutta dal gossip e dalla morte della bambina alla fine decide di suicidarsi. La vicenda si intreccia clamorosamente con quella reale dell’attrice che la interpreta, ovvero la divina Ruan Lingyu di cui già si è detto, che a 24 anni, un anno dopo aver girato questo film, si toglie la vita per le pressioni dovute a cause legali con l’ex-marito e l’ambiguo rapporto con il secondo e la risonanza che queste vicende hanno avuto sui giornali. Notevole melodramma ancora muto con parti sonorizzate (una bella copia si trova su Youtube con sottotitoli in inglese e doppiaggio postumo per renderlo “sonoro”) e attenzione alla situazione economico sociale deteriorata dal capitalismo spinto. Un film a suo modo “rivoluzionario”. (Voto 7)

Nonostante ormai siamo in anni dove il sonoro ha soppiantato il muto, Song of China (1935) è ancora un silent movie ed è una storia “edificante” sui rapporti padri e figli. La tradizionale famiglia cinese vuole che padri e figli si debbano trattare come se l’altro fosse se stesso. I padri prendersi cura dei figli e dei nipoti e viceversa. Nella famiglia di Liting Sun questo si è sempre rispettato fino a che la famiglia non si è trasferita in città dove il figlio e la nuora conducono una vita sregolata lasciando il nipotino appena nato alla cura dei nonni senza preoccuparsi troppo di lui. Feste, alcol, donne, gioco d’azzardo, il figlio di Sun proprio le tradizioni non le rispetta e ha preso la cattiva strada. Liting Sun costringe tutti (moglie, figlio e nuora, l’altra figlia più giovane e il nipotino) a tornare in campagna dove le tentazioni sono minori. Ma dopo sette anni la coppia più giovane non ne può più e non solo si prende con sé il nipotino di Sun ma vuole anche che la seconda figlia di Sun vada con loro in città a sposare un uomo facoltoso. Amarezza e disperazione cade sui coniugi anziani. Liting per rispettare la volontà del padre (trattare anziani e bambini come se fossero te stesso) fonda una scuola per orfani e si prende cura di questi suoi figli (per Confucio se per tre anni ci si prende cura di un giovane questo diventa tuo figlio). Finirà, questo breve film (meno di un’ora) con il ravvedimento del figlio di Sun che torna pentito assieme al figlio che, ormai adulto, accetta di prendere il posto del nonno nella gestione della scuola. Buonismo e moralismo che non solo mette in contrasto vecchie generazioni e nuove generazioni ma anche vita cittadina con vita di campagna (prendendo decisamente le parti, in modo piuttosto conservatore, di anziani saggi e vita morigerata contadina), non impediscono a Fei Mu e Luo Mingyou di dare buona prova visiva con la loro regia, soprattutto quando illustrano la lunga sequenza della festa di compleanno di Sun che sfocia in un convulso convivio di maialini allo spiedo, vino e giochi di carte. (voto 6)

Pioggia, notte, ombre e oscurità, inquadrature sghembe, un mostruoso essere sfigurato. Il Fantasma dell’opera incontra Cyrano de Bergerac, la ribellione de I Miserabili il dramma finale di Frankenstein. Il regista Ma-Xu Weibang costruisce in Song at Midnight (1937) un gotico-flamboyant andando a pescare nei feuilleton, nel teatro e nei romanzi ottocenteschi con chiaro riferimento ai film horror occidentali. Ne risulta un’opera eterogenea in cui sapienti ambientazioni cupe e dark e tesi momenti melodrammatici si alternano a lunghi brani operistici e un ritmo lento e a tratti snervante. Comunque un film che non ti aspetteresti arrivare alla Cina pre-maoista, anche se il protagonista proprio per il suo essere ribelle al potere costituito rappresentato da un subdolo boss locale viene cosparso di acido e trasformato in uno sfigurato mostruoso e quindi in linea con i patimenti dell’Armata rossa rivoluzionaria in lotta con il Giappone invasore. Lui, artista e cantante d’opera, viene anche picchiato e cacciato da una casa “borghese” perché innamorato della figlia dei padroni e, dopo l’incidente, si fa credere morto perché non vuol farsi vedere così dall’amata. Quest’ultima avvisata della morte dell’uomo impazzisce e solo dopo molti anni la vicenda ha un seguito quando il “mostro”, che viveva nascosto in un teatro abbandonato, fa amicizia con il capocomico di una compagnia di teatro arrivata al paese per recitare nel locale. Gli chiede di far le sue veci e farsi credere se stesso redivivo in modo da far tornare la donna alla normalità. Poi si vendicherà del boss che lo ha fatto sfigurare. “Song at Midnight  è un film disperato, d’un nero implacabile, ingarbugliato da un intrigo amoroso così oscuro e minimalista che sembra negare l’essenza romanzesca del capolavoro di Gaston Leroux” (Vincent Malause, Cahiers du Cinema, Novembre 2013)

Sempre del 1937 è la dramedy Carrefours del raffinato Shen Xiling che “traccia abilmente un canovaccio di commedia romantica e sociale di sofisticata luminosità, in cui si nota l’influenza hollywoodiana” (Vincent Malause, ibid.). Shanghai, città moderna con i suoi grattacieli, contiene ugualmente dei sobborghi dove vivono operai, studenti e artisti che faticano a trovare lavoro e, in difficoltà economiche, vivono in tuguri e stanze in affitto, magari in una stanza divisa in due da una parete di assi di legno che non copre l’intera altezza della camera per permettere di raddoppiare l’affitto a danno della privacy. In una di queste vivono i due protagonisti di questa storia, lui un aspirante giornalista disoccupato che troverà lavoro in un giornale di notte, lei un’operaia di fabbrica che lavora di giorno. In pratica i due sono a casa alternativamente e cominciano a farsi dispetti invadendo lo spazio dell’altro/a mentre non c’è. Finchè i due non si incontrano su un tram senza riconoscersi e si innamorano. Il substrato “neorealista” della povertà e della disoccupazione (decisa critica sociale alla vita nella grande città con tanto di amici che si suicidano per la disperazione) fa da controcanto alla leggerezza della storia d’amore e allontanano il film da Hollywood per avvicinarlo al realismo poetico francese. Film interessante, un po’ troppo lungo (avrebbe giovato un ritmo più serrato) con Shen Xiling che gira con eleganza, utilizzando anche sovrimpressioni e trucchi visivi, da un lato e con capacità espressiva “realistica” dall’altro. (voto 6+)

Confucius di Fei Mu del 1940, un film invisibile per anni poi miracolosamente ritrovato e restaurato. Il film, secondo Charles Tesson, è importante perché girato in un periodo (vi era l’occupazione giapponese a Shanghai e intanto si rafforzava la resistenza comunista) in cui il confucianesimo era stato spazzato via dagli interessi cinematografici assieme ai film ambientati nell’epoca imperiale in uno slancio verso la modernizzazione della società. Da questo punto di vista il biopic su Confucio è importante per far capire quanto la cultura cinese comunque restasse legata ai principi del confucianesimo. In realtà cinematograficamente parlando è un polpettone che tratta delle lotte di potere tra il VI e il V secolo avanti Cristo (periodo in cui ha vissuto Confucio) tra i quattro regni in cui era divisa la Cina allora e parallelamente gli intrecci con i regnanti del filosofo che si distacca dalle loro trame poco edificanti per errare attraverso l’impero con i suoi seguaci ed insegnare la propria saggezza. In realtà gli insegnamenti di Confucio sono piuttosto marginali (anche se pare che la versione sopravvissuta e che potete trovare sorprendentemente su Youtube sia accorciata rispetto al film come fu concepito dal regista Fei Mu) e più che altro è la successione degli eventi (guerre, omicidi, tradimenti, successioni al potere) che viene mostrata. Ma non aspettatevi un Trono di spade antelitteram, qui la narrazione cinematografica è molto statica (su Wikipedia si citano Eizenstein e Mizoguchi a mio parere a sproposito) con molti cartelli che narrano gli eventi e la rappresentazione successiva degli stessi in veloci quadri, come accadeva nel cinema muto arcaico quando così si raccontavano gli eventi storici. (voto 5)

Riecco la terribile imperatrice Cixi, l’imperatrice dowager, vedova, colei che per decenni ha tenuto sotto il suo pugno di ferro la Cina dominando con la sua presenza anche sui legittimi eredi al trono, fossero il figlio o il nipote. L’avevamo già incontrata con i due film a lei dedicati dal raffinatissimo Li Han-hsiang, il primo del 1975, il secondo, The empress Dowager del 1989. Su Youtube potete trovare questo Sorrows of the forbidden city (1948) di Shilin Zhu, film che si concentra sulle schermaglie di Cixi con il giovane imperatore Guangxu e la sua concubina amata. I due giovani vorrebbero portare cambiamenti progressisti al potere con l’imperatrice che riesce ad imporre la propria autorità facendoli addirittura mettere agli “arresti domiciliari” per restaurare le vecchie regole. Conservatrice e reazionaria (secondo gli storici in questo film è stata anche esageratamente dipinta in questo modo) diventa per Mao e per il governo comunista del tempo una possibile metafora della loro situazione e il film osteggiato. Shilin Zhu gira attento a come inquadrare i personaggi per metterne in evidenza la scala di potere e i primi piani di Cixi sono tremendi nell’evidenziare la cecità isterica di un potere che non vuol vedere al di là della propria autocelebrazione. (voto 6+)

Fei Mu nel 1948 licenzia una delle sue opere migliori, Spring in a small town, un melodramma bucolico “trattenuto” in cui mette una tensione erotica notevole, immagini che si rifanno al muto ma con un modernissimo andamento nouvelle vague che lo apparenta ad autori odierni come Hong Sang-soo, ad esempio. Un personaggio di fallito “cechoviano” vive con la sorella adolescente e con la bella moglie insoddisfatta. Il matrimonio non ha preso e i tre scorrono la loro giornata con tristezza e mancanza di vitalità. Metafora di questo è il muro diroccato lungo il quale passeggia la moglie nelle lunghe giornate. La sua voce fuori campo commenta questo dramma esistenziale. Un giorno ritorna in zona un vecchio amico del protagonista nonché amore giovanile (e mai dimenticato) della moglie. Il suo arrivo rivitalizza le due donne e il vecchio amore riprende fiamma. I due vecchi amanti faticano a non lasciarsi andare al richiamo dei sensi per non tradire il marito di lei. Questo sempre più depresso vuol lasciarsi morire, conscio anche dell’amore tra i due. “Influenzato dal teatro e dall’arte scenica (…) centrato sul dipinto pudico dei sentimenti, l’emozione interiore, le sensazioni trattenute ed espresse. Un cinema che non era apprezzato dalle autorità cinesi, perché teneva ai margini una critica sociale frontale, non anticipando sufficientemente il regime che stava per arrivare.” (Charles Tesson, da Shanghai blues su Cahiers du cinema novembre 2013) Insomma troppi sentimenti e poca politica. Il buon cinema, nonostante Mao, è anche questo. (voto 7)

Un paesino di poche case contadine, la neve cade dal cielo. In una casa di povera gente due ragazzi progettano di sposarsi davanti ai rispettavi genitori vedovi, la madre di lui e il padre di lei. Gente semplice ma felice anche se si è spezzata la schiena durante l’anno per mettere assieme pochi soldi per cercare di appianare il debito con il padrone delle terre, un despota che chiede rendite impossibili da pagare. Il padre resta solo con la ragazza che le si addormenta in grembo. Le accarezza la testa mentre le lacrime gli rigano il volto. Inizia a cantare una canzone dolente. Noi sappiamo che dentro di sé cova il dolore di esser stato costretto a vendere la figlia al padrone per non finire in galera perché i soldi non bastavano per coprire il debito e gli interessi da usuraio. Il patetismo diventa arte passando per la “pittura” fotografica e per il teatro d’opera cinese. Questa è una delle scene più significative e struggenti del film The white haired girl (1950) di Choi Khoua e Bin Wang (lo trovate su Youtube in cinese con sottotitoli inglesi). Assieme alla sequenza della fuga epica e drammatica della ragazza dal tirannico e malvagio proprietario terriero dopo esser stata da lui stuprata e aver sepolto il frutto della violenza (pioggia, vento, ripari di fortuna, lotta per la sopravvivenza in un paesaggio duro combattendo contro gli elementi), sono sprazzi di ottimo cinema in un contesto propagandistico in cui l’Armata Rossa maoista (tra cui si rifugia il promesso sposo della protagonista) portano giustizia e rivolta tra i contadini. Il film è uno strano oggetto da classificare, melodramma musicale rivoluzionario con un pizzico di gotico (la protagonista diventa nel finale una specie di dea dai lunghi caplli bianchi, figura inquietante scambiata per un fantasma che vive nelle grotte e ha proprietà divine). Nel film sono incappato cercando le opere di Shanghai e l’ho comunque voluto inserire in questo contesto anche se è di produzione dei Changchun Studio. (Voto 6,5)

Per concludere questo breve escursus sul cinema di Shanghai, si può trovare su Dailymotion la versione uncut di 154 minuti di Center stage (1991) con cui Stanley Kwan rende omaggio alla figura della già citata star Ruan Ling Yu. La sua folgorante ascesa e la drammatica fine con il suicidio a 25 anni vengono rappresentati con il solito affascinante romanticismo di cui il regista è maestro, immagini cariche di pathos che vanno ad abbinarsi ad interviste (in bianco e nero) a sopravvissuti del mondo del cinema di quei tempi e alla protagonista di Center stage, la sempre splendida Maggie Cheung e a spezzoni dei pochi film interpretati da Ruan e non andati perduti, mischiando documentario, fiction e metacinema. Un omaggio sentito e carico di glamour come lo era la figura della Goddess del cinema cinese.

STEFANO BARBACINI

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