Mikhail Beideman fu un antieroe della rivoluzione russa, militare sotto lo Zar Alessandro II, decise di emigrare a Londra dove scrisse sul giornale rivoluzionario Kolokol e, durante i primi moti delle rivolte contadine, ritornò in Russia dove fu catturato, imprigionato senza processo e “dimenticato” per vent’anni nelle prigioni zariste. Rinchiuso in una piccola stanza con una brandina e null’altro, impazzì. La sua storia è raccontata nel film The palace and the fortress (1924) di Aleksandr Ivanovskij. La pellicola che al tempo ebbe un successo clamoroso (molto più dei film dei più acclamati Ejzenstein, Vertov e compagnia bella, gli sperimentatori russi) sembrava perduta. Finalmente ritrovata in una buona copia è stata presentata al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna a cento anni dalla sua realizzazione. Il film romanza la vicenda di Beideman che nella versione cinematografica si innamora di una parente dello zar e, cacciato da palazzo per le sue origini non abbastanza nobili, sceglie la strada dei ribelli. Una volta in prigione nella cella accanto passeranno importanti nomi della rivoluzione di là da venire e quindi mostrandoci la vicenda personale e drammatica di Beideman, Ivanovskij ci mostra anche uno spaccato di storia. Girato senza sperimentazioni come ci si aspetterebbe dall’epoca, il film è tutto costruito per dar spazio alle interpretazioni degli interpreti (attori affermati di teatro) in primis quella sopra le righe e “folle” di Evgenij Boronichin. (voto 6)
Il regista siriano Ossama Mohammed tra emozioni forti e aneddoti sul suo passato calcistico (ero un difensore tipo il vostro Calafiori…) ha presentato al Cinema Jolly di Bologna per il Festival del Cinema Ritrovato 2024 la genesi e le difficoltà subite dal suo film d’esordio Stars in broad daylight (1988). E’ questo una satira del potere rapportata ad un nucleo famigliare dove si devono celebrare due matrimoni. Il dispotismo degli uomini della famiglia mascherato da saggezza e comprensione, su donne e giovani più deboli, è da rapportarsi a quello di Assad e degli uomini di potere che lo accompagnano. Tra grottesco e immagini poetiche che creano una dicotomia curiosa (che ricorda il cinema di Abdrashitov). Naturalmente una volta proiettato fu bandito dal potere e lo scomodo Ossama fu costretto nel 2011 ad un esilio francese. (voto 6+). Nel film troviamo un’auto Mitsubishi, una tuta Adidas, una tv General e una moto Yamaha. Possibile product placement anche un’inquadratura fissa su pubblicità Sony, Sakura e Konica quando il protagonista fugge in città.
Nonostante le notevoli interpretazioni di Henry Fonda e Vincent Price, il remake di Alba tragica di Carné da parte di Anatole Litvak con il titolo italiano La disperata notte (1947) non riesce a non far rimpiangere l’originale. Litvak ce la mette tutta per creare l’atmosfera giusta, fotografia noir, figure ambigue, rapporti personali contrastati, ma qualcosa non quadra. Non tanto (o meglio anche per quello) per il finale consolatorio probabilmente imposto dallo Studio, ma in quanto manca di tensione e passione, anche per colpa di una scipita Barbara Bel Geddes (meglio Ann Dvorak donna perduta e piena di umanità). Insomma, la storia di Joe Adams che uccide ad inizio film il mago Maximilian, si rinchiude in una stanza con la polizia che lo bracca e che poi ci viene raccontata in vari flashback e flashback nel flashback, con Jo Ann disperatamente amata da Joe ma che non riesce a lasciarsi dietro il fascino peloso di Maximilian, è raccontata con correttezza ma senza la dovuta forza emozionale. Il punto di vista di Ehsan Khoshbakht, interessante e personale, vede la differenza dei due fillm nel cambiamento dei tempi e luoghi di produzione. Soprattutto “si rischia di non cogliere le sfumature del bel lavoro di Litvak e di non comprendere appieno l’effetto che la guerra sul suo cinema. L’ottimismo e l’ingenuità della coppia nel remake sono drasticamente diversi dall’angoscia fatalista dell’originale, e quindi la sensazione di un ambiente decadente che conduce alla tragedia è più accentuata nella versione di Litvak. Qui il disgusto esistenzialista si è tramutato nella promessa mancata della provincia industriale americana” (Dal Catalogo del Festival del Cinema Ritrovato 2024) (voto 6) Qualche product placement si può trovare nel film, ovvero TWA, un orologio da muro Claridge e la Morry’s Jewelery.
Una delle tante femme fatale che fanno rincretinire d’amore gli uomini che abbiamo visto sugli schermi del Festival del Cinema Ritrovato 2024 è interpretata dalla irresistibilmente bionda e sfrontata Gunn Wallgren, nel film La furia del peccato (1947) di Gustaf Molander. La donna è disposta a tutto per strappare alla sua vita borghese di padre di famiglia Alf Kjellin, l’uomo-vittima designata, colui che si crede forte e in grado di gestire la situazione (dicono così anche le persone dipendenti da sostanze…). Infatti Gunn è una droga ed è senza freni, disposta a darsi perfino ad uno spazzacamino sporco di fuliggine in una squallida soffitta per placare il suo bisogno di degradazione sessuale dovuto ad un trauma infantile mai superato. Molander riesce a creare un rapporto di potere delle passioni e allo stesso tempo carico di valenze psicologiche tra i due amanti ma anche tra il personaggio interpretato da Gunn e i genitori e quello dell’uomo con la moglie. Un dramma freddo e rude come la passione mal controllata. Inconsueta la struttura del film con protagonista l’amico di Kjellin, Stig Olin (il padre di Lena Olin) che ricostruisce la storia dei due amanti un po’ utilizzando i suoi ricordi, un po’ i racconti di Gunn, un po’ i racconti di altri che li hanno conosciuti in una serie di flashback che a volte ti perdi e non capisci da chi sono avviati. Il film è uno dei due diretti da Molander sceneggiati da Ingmar Bergman e si sente, nel senso che siamo nel periodo in cui il futuro grande regista svedese costruiva le sue sceneggiature sull’analisi dei rapporti tra gli uomini e le donne in ambiti borghesi. (voto 6,5) Sigarette Philip Morris e Marvels nel film, e Pilsner come product placement del film.
Cos’è il vento al cinema. Un elemento invisibile che lo vedi solo su come agisce sugli altri. E allora il vento è la sabbia (tanta nelle zone aride e desertiche del Texas) che trasportata si ammucchia attorno alle finestre e alla soglia delle porte impedendo anche la loro riapertura. Sono capelli e cappelli che non stanno mai a posto su teste che, colpite senza requie, rischiano di impazzire. Sono rami che volano, tettoie che crollano, cavalli che fuggono. Per Victor Sjostrom in Il vento (1928) è un cavallo bianco furioso che corre nei cieli, una terribile forza della natura che tutto travolge; l’animo della povera Letty (meravigliosa Lillian Gish), fragile ragazza dell’est costretta a convivere con rudi uomini texani che non conoscono gentilezze e smancerie e donne che con coltellacci insanguinati sventrano carcasse d’animale; ma anche l’animo impetuoso di un uomo senza scrupoli, tentatore e bugiardo. Violentatore. E il vento svela fino all’osso la finta apparenza dell’uomo distinto e invece non può nulla su chi si è adattato. Ecco allora che il marito, visto in precedenza come un uomo volgare e ignorante, diventa ciò che di meglio c’è in giro perché lui dal vento è già stato scolpito e non può che risultare onesto e senza segreti. E allora lasciamo che il vento spazzi via la violenza e seppellisca gli orrori. Che bello vedere un film muto di questa valenza, la forza delle sue immagini, in una piazza gremita all’inverosimile al centro di Bologna per la proiezione accompagnata dall’Orchestra del Conservatorio G.B.Martini. Un’emozione che solo il cinema visto come va visto può dare. (voto 7/8)