Idioti, regia di Lars Von Trier, 1998. Nelle società primordiali, quando si nasceva mongolini si aveva svoltato. Arrivava subito il capo tribù che diceva: “Sei talmente diverso dagli altri che di sicuro gli Dei, se t’han conciato in questo modo, ti considerano speciale. Io quindi ti nomino sciamano, perché se sei speciale per gli Dei è giusto che tu lo sia anche per la tribù. Adesso comincia a darci dentro con le pozioni e con le altre minchiate rituali e vivi sereno. Sarai amato e rispettato da chiunque, fino all’ultimo dei giorni tuoi.” Oggi, invece, il discorso è diverso. Nelle società moderne, quando si nasce mongolini, son cazzi buffi. A far rimpiangere ai mongolini i beati tempi dell’anello al naso, ci sono sciami di medici e infermiere che, in tono amorevole, dicono: “Adesso zitto e mosca e apri la bocca. Qui c’è un magico pasticcone al gusto di Torazina che ti aspetta.” Ci sono i familiari dei mongolini medesimi e gli amici dei familiari che intonano litanie del tipo: “Povero disgraziato, quanto soffre! Speriamo che il Signore lo porti in cielo alla velocità del lampo.” E c’è addirittura la gente comune che, coi suoi sorrisi di compassione, lascia intendere ai mongolini che, per il loro bene, l’amletica domanda “essere o non essere?” è meglio che non se la pongano mai, dal momento che la risposta non li soddisferebbe. Insomma, per i mongolini la società odierna è una merda. Un bel giorno, però, è arrivato Lars Von Trier e, con i suoi “Idioti”, ha cinematograficamente dimostrato d’essere il miglior regista mongolino nella storia della modernità. La trama di “Idioti” è semplice. In pratica Trier ha raccontato le vicende di un gruppetto di amici, formato da individui colti e realizzati a livello professionale, che nel tempo libero scorazza per la Danimarca (il film è lì ambientato) fingendo d’essere più mongolo di Gengis Khan. Il gruppetto se ne va a seminare scompiglio per ristoranti chic, pubbliche strade e altri posti analoghi, animato dal bisogno di mettere in piazza la propria simulata idiozia a suon di sbavate, camminate zoppicanti e cigolii di carrozzine per disabili. Il risultato è un “Grand Giugnol invalido” in grado di pigliare a spintoni la sensibilità moderna che, davanti alla diversità, si scioglie in ipocriti minuetti di tolleranza che lascerebbero di sasso il pietrisco di un cortile (memorabile, a tal proposito, la sequenza che vede uno del gruppo aggirarsi nudo per gli spogliatoi femminili di una piscina comunale, rincorso dai gridolini di dozzine di femmine espertissime nel combinare insieme schifo e pietà). Grossa parte del film è dedicata a illustrare il tempo libero dei finti mongolini, che trascorrono piacevoli momenti a banchettare con vodka Absolut e patatine Pringles dentro le mura di un’elegante villa appartenente a uno di loro. Tra un banchetto e un altro, il gruppetto si cimenta in grotteschi esercizi regressivi per diventare ancora più mongolo, e ogni tanto si scatena in orge sfrenate, dove cazzi, culi e tette monopolizzano lo schermo e lasciano credere agli spettatori che, società moderna o meno, a fingersi mongoli una trombata in compagnia rischia di saltar sempre fuori. Nel film, tuttavia, rimane irrisolta la questione principale, nel senso che non si capiscono in pieno le ragioni per le quali il gruppetto di amici scelga di trasformarsi in un piccolo “Cottolengo”. L’unica spiegazione che trapela è racchiusa in una criptica battuta che un membro del gruppo a un certo punto pronuncia: “Essere un idiota è un lusso, ma è anche un passo in avanti. Gli idioti sono esseri del futuro.” Che è un po’ come dire: “Vabbè, mica son cretino sul serio, sennò ‘sta battuta da scienziato del pensiero a cosa mi sarebbe servita?” Comunque sia “Idioti” è una figata di film, non si discute.