TRON: LEGACY – Joseph Kosinski (2010)
Joseph Kosinski, laurea in architettura, esperienze in pubblicità dove ha sperimentato nuove soluzioni CGI negli spot per APPLE e NIKE, classe ’74 (aveva 8 anni all’uscita del Tron di Lisberger), è l’erede designato dalla Disney per il sequel al film del 1982. Il regista raccoglie la “Legacy” senza far tabula rasa dell’originale come spesso avviene invece in operazioni simili, ma è rispettoso del lavoro di Lisberger tanto che la prima mezz’ora di film non è altro che un omaggio nostalgico agli anni ’80.
1989: Kevin Flynn esce di casa, lasciando il figlio Sam di 7 anni nel suo lettino pieno di sogni e promesse, e non vi fa più ritorno.
Vent’anni dopo un altro reduce del primo film, Alan Bradley, il creatore del programma Tron, interpretato sempre da Bruce Boxleitner (unico attore insieme a Jeff Bridges a comparire in entrambi i film), ora presidente della ENCOM, si presenta a Sam convincendolo a tornare con la vecchia DUCATI (tutta la prima parte sembra un lungo spot della marca di moto che appare un po’ ovunque) all’Arcade da FLYNN’S la storica sala giochi del padre inutilizzata da tempo, sepolta da spessi strati di polvere e vero e proprio cimitero degli elefanti dei videogame anni ’80 (citati nei ringraziamenti finali alla ATARI) con tanto di musica di sottofondo dei Journey (omaggiati con “Separate ways”) e con l’hit “Sweet dreams” degli Eurythmics.
Anche quando, ovviamente, Sam entrerà nella realtà virtuale alla ricerca del padre, viene ripreso il design del primo film con le tutine fluorescenti, i dischi/neon da battaglia, i giochi gladiatori, le guardie armate di spade lucenti e le moto di Syd Mead. Il tutto naturalmente attualizzato con le nuove possibilità del CGI.
Poi comincia a tutti gli effetti il TRON 2010.
Siamo di fronte ad un film adulto con una storia (fin troppo) complessa che affronta i grandi temi del progresso e della degenerazione delle idee se queste finisco in mano a persone (o programmi, è questo il caso) con il paraocchi e senza scrupoli morali.
Niente a che vedere, quindi, con quel che era il primo film, un giocattolino per ragazzini che si dovevano divertire ad assistere alla lotta tra i buoni e i cattivi con azione continua e praticamente senza soluzione di continuità. L’accenno al programma che diventava intelligente e prevaricava l’uomo era poco più che un espediente per dare vita alla battaglia nel mondo virtuale.
Ora i germi di quella trama trovano esplicazione nel sequel che sviluppa la situazione con un doppio Jeff Bridges nei panni del programma CLU creato da Flynn (ha l’aspetto di Bridges nel 1982) che diventa l’antagonista dello stesso creatore intrappolato nella realtà virtuale con il suo aspetto di anziano del 2010. Le idee che hanno portato Flynn a creare la realtà virtuale e il programma CLU per cercare la perfezione assoluta, col fine di migliorare, ottenendo la creatura digitale perfetta, la vita degli uomini portandoli alla conoscenza assoluta alla ricerca della grande Utopia, vengono prese alla lettera dal programma che comprende l’idea di perfezione, non canalizzata da un adeguata esperienza morale, solo come supremazia di “razza” e di potere, con la conseguente eliminazione degli esseri “imperfetti” e creazione di schiavi al servizio degli esseri superiori. Praticamente la scienza ed il progresso utilizzati per scopi nazisti.
Cercare la perfezione divina per poi rendersi conto che questa esiste già, trovandola magari in un alito di vento che ti scuote i capelli durante un viaggio in moto abbracciato a qualcuno a cui si vuol bene…
Si potrebbe traslare la questione posta dall’opera di Kosinski (e degli sceneggiatori Kitsis e Horowitz, che in quanto a complicazioni mistico-esistenziali si sono fatti le ossa su Lost ed è già detto tutto…) al cinema: il progresso tecnologico del cinema moderno ha un senso se poi resta fine a se stesso ed elimina l’importanza della storia e la bellezza esteriore annulla la sostanza?
Naturalmente il film non è tutto narrazione e meditazione, anzi. Vi sono anche i tanto attesi effetti speciali e le meraviglie del digitale sempre più perfezionato (anche se nell’era degli Avatar e degli Inception è difficile stupirsi più di tanto), le tutine hi-tech erotiche di Olivia Wilde e Beau Garrett, il bar-tecno gestito da uno schizzato Michael Sheen che sembra uscito da un film noir ma sotto acido, le battaglie “spaziali” (si comincia con atmosfere da Blade Runner per arrivare a Star Wars) e, infine, ci sono le travolgenti musiche dei Daft Punk (che appaiono anche come baristi mascherati nel film).
Quello che personalmente mi ha deluso è invece il 3D. Si è optato, con senso diegetico, di girare in 2D la parte del mondo reale e in 3D quella virtuale, ma quello che è presentato come un passo in avanti rispetto addirittura ad Avatar, non apporta al film nessun miglioramento, anzi. Tranne in un paio di scene trompe l’oeil l’effetto per cui il tridimensionale nasce, cioè il senso vedere i personaggi che quasi escono dal film tanto di pensare di poterli toccare, è praticamente inesistente ed oltretutto gli infernali occhialini tendono ad opacizzare la visione risultando controproducenti alla resa dell’immagine, che gioca principalmente sulla luminosità delle parti illuminate sullo sfondo perennemente nero del mondo virtuale, mitigandone l’effetto che invece dovrebbe essere (ed è) uno dei punti di forza del film.
Dove invece si raggiunge la perfezione (con qualche preoccupazione nel mondo degli attori che rischiano di vedere compromessa la loro importanza, e la conseguente remunerazione, nel cinema) è nella creazione dell’alter ego digitale di Jeff Bridges giovane che ci fa pensare ad un futuro dove l’attore stesso diventi praticamente inutile…
Detto della DUCATI, passando al lato product placement confinato interamente nella prima parte “umana”, abbiamo anche una bicicletta PK RIPPER, un aggeggio tecnologico NOKIA con cui Sam riesce ad entrare di soppiatto alla ENCOM, l’IPAD utilizzato da un consigliere della stessa ditta ed una lattina di COORS bevuta sempre da Flynn jr.