Il Far East Film Festival è una panoramica sul cinema dell’Estremo Oriente che si concentra principalmente su film popolari, film per il grande pubblico. Ora è chiaro che in mezzo a questa variegata categoria vi si trovano i migliori professionisti ma anche registi interessati solo a buttare fuffa in pasto ad un pubblico abituato più ai prodotti televisivi e alle soap opera che non al cinema. Facendo ridere e piangere un tanto al metro, buttando gag e tragedie nella sceneggiatura a chili, si rischia di soddisfare gran parte di pubblico ma fare qualcosa di artisticamente apprezzabile è altra cosa. Mero prodotto di consumo che non so quanto abbia bisogno di esser valorizzato anche da un festival cinematografico. Dico questo dopo aver visto il film vietnamita Betting with ghost, un film che va in questa direzione. Partendo da uno spunto già di per sé non particolarmente promettente (un giovane indebitato e accanito scommettitore ai combattimenti illegali tra galli, incontra il fantasma di una donna morta di parto e alla ricerca della figlia; i due stringeranno un patto per cui lei farà in modo che lui vinca somme di denaro e lui l’aiuterà nella ricerca della figlia; complicazione: per ogni vittoria di una cifra al gioco il padre subirà un infortunio più o meno serio in proporzione alla vincita…), il film parte con i toni della commedia con qualche momento simpatico poi, però, inanella una serie di gag assurde (non perché sono nonsense ma perché non si capisce il divertimento) e, soprattutto, diventa un accumularsi senza fine di patetismo su patetismo. Al ragazzo ne succedono di ogni e si va a cercare di strappare lacrime senza sosta ad un pubblico evidentemente di bocca buona per trovare gradevole quanto vedono sullo schermo. Inoltre nella trama vi sono incongruenze enormi, dialoghi con frasi populiste e retoriche (“diventa ricco lavorando!”; “volere è potere!”) e colpi di scena che neppure nei peggiori feuilleton… Peccato perché fotografia e regia sono professionali, non certo sceneggiatura ed interpreti. (Voto 4,5)
Classico horror degli anni ’60 diretto da Tanaka Tozuko, il film The Snow Woman (1968) si può rivedere restaurato nella retrospettiva dedicata agli Yokai e altri mostri del Far East Film Festival 2025. Un film ricercato che affascina ancora oggi, come è piena di fascino l’interpretazione penetrante della glabra attrice Fujimura Shiho. La leggenda della “donna delle nevi”, donna demone che uccide congelandoli i viandanti che fanno l’errore di approssimarsi alle sue montagne, inizia con l’arrivo di un maestro scultore e del suo giovane discepolo sui monti, in mezzo a ghiaccio e neve, per cercare un rarissimo albero che servirà per una scultura sacra. La donna uccide come da prammatica il vecchio ma si impietosisce di fronte al giovane e lo lascia vivere con la promessa di non raccontare della sua esistenza a nessuno. Dopo qualche tempo, una bellissima donna arriva al villaggio in cui abita lo scultore. I due si innamorano, si sposano e procreano un figlio. La donna, naturalmente, non è altri che la Snow Woman fattasi umana. Per alcuni anni i nostri vivono felici finché un prepotente funzionario governativo non prende di mira la fama dello scultore e si invaghisce della moglie. Per difendere la propria famiglia e sé stessa, la donna deve venire allo scoperto e ricominciare ad uccidere. Dovrebbe uccidere anche il marito che non ha mantenuto la parola ma, ancora una volta, lo grazia per amore del figlio e se ne va sacrificando la sua felicità. La capacità del regista di creare pathos e immagini evocative si esplicita principalmente nelle sequenze iniziali con l’apparizione inquietante ed attraente allo stesso tempo della donna-demone sotto la neve, immagini che ricordano per composizione e magnificenza quelle dell’episodio de “I Wurdalak” de I tre volti della paura di Mario Bava e probabilmente sono state ispirazione per quelle della Lady Snowblood di Fujita. (Voto 7+)
Al Visionario durante il Far East Film Festival 2025 si possono rivedere alcuni classici restaurati. Uno di questi è The story of a small town (1979), film girato verso la fine del periodo chiamato del “sano realismo” in cui il cinema dell’isola guardava al neorealismo italiano rappresentando personaggi umili alla ricerca di una sana vita rispettosa dei valori tradizionali. L’eroe del film in questione, Wen-hsiung, ne è ottimo esempio. Scontati due anni di carcere per aver difeso la sorella dal marito ubriaco e violento rompendo le gambe a quest’ultimo in un eccesso di rabbia, il nostro cerca di rifarsi una vita diventando l’apprendista di uno scultore di oggetti di legno votivi. Wen-hsiung preferisce decentrarsi in un piccolo villaggio a svolgere un lavoro artigianale e di pregio artistico ad altre soluzioni come emigrare nella ricca capitale o intraprendere gli studi per una carriera professionale più remunerativa. Così, coerentemente, preferisce sposare la figlia bella ma muta dell’anziano scultore e rinunciare alla corte di una ricca ragazza che da sempre vorrebbe avere una vita con lui nonostante la cosa sia osteggiata dai genitori altolocati. Ma il percorso verso questa felicità in apparenza semplice è pieno di ostacoli: un prepotente del luogo lo accusa ingiustamente perché geloso di lui, un ex-compagno di prigione arriva al villaggio e cerca di violentare la ragazza muta, anche il vecchio scultore mentore lo accusa ingiustamente di furto e di avere due donne e quindi di essere inaffidabile. Ma la sua forza morale e la capacità di superare il suo stesso carattere violento, lo porteranno sulla strada giusta. Il film ha tra le frecce del suo arco una bella rappresentazione dell’ambiente del villaggio e della sua comunità e anche del piccolo laboratorio a conduzione famigliare; è però, quello del regista Lee Hsing (uno dei più famosi e apprezzati di quegli anni) un modo di fare cinema che risente del peso degli anni con quel suo procedere ad episodi come tappe di una via Crucis verso la redenzione che appaiono predefinite, programmate e non fluide. (Voto 6) Nel film si intravvedono marche di birra e altri prodotti ma le cui marche sono in ideogrammi e quindi rendono il product placement non identificabile per gli occidentali.