LA GRANDE BELLEZZA (2013) – Paolo Sorrentino
Con Sorrentino, possa piacere o no, abbiamo finalmente un autore in grado di guardare al di là dei confini del cinema narrativo restando capace di non intrappolarsi in ostiche maglie avanguardistiche.
Finalmente abbiamo di nuovo un cinema personale che si allontana dal trittico commedia, nostalgia di giovinezza, denuncia politica che è ormai l’unico prodotto italiano a certi livelli di diffusione.
Il tentativo di voltarsi indietro verso i fasti degli Antonioni, Fellini e compagnia cantante può sembrare presuntuoso ma bisogna rendersi conto che c’è il bisogno assoluto di tornare ad un cinema autoriale che azzardi qualcosina di più rispetto al piattume generale. Ben vengano tentativi azzardati, esagerati, arroganti, ambiziosi purchè tentino una strada personale.
In realtà il film di Sorrentino è addirittura troppo contrito nel cercare di restare dentro al proprio progetto poetico-contenutistico, Fellini (che quasi tutti hanno citato come riferimento) avrebbe rotto assolutamente qualsiasi limite, la sua visione esagerava le ossessioni personali fregandosene bellamente di qualsiasi coerenza narrativa o di contenuto.
Sorrentino si ferma un po’ prima ma ugualmente deraglia dalla retta via voluta dalla narrazione mettendo insieme momenti di vita di Jep Gambardella (il sodale Toni Servillo), ormai anziano viveur entrato nella bella società di Roma in gioventù grazie alla fama ottenuta per un romanzo che ha vinto il Bancarella ma incagliatosi nel “vortice della mondanità” con l’ambizione di diventarne il re. Si guadagna la vita e la permanenza nel jet set scrivendo su una rivista tipo VANITY FAIR di arte à la page e frivolezze cultural snob.
Conscio di una vita in passivo e dell’inutile continua ricerca del vacuo piacere e dell’apparire (“siamo tutti sull’orlo della disperazione”) che lo porta a trascurare sentimenti e felicità, ormai può permettersi un cinismo corrosivo nei confronti di pseudo artisti e pseudo intellettuali che parlano con frasi fatte e si vantano di prodezze costruite più grazie a conoscenze di partner ricchi che non a reale talento ed aggirarsi per questo mondo artificiale e stupido con superiorità cercando di individuarne la “grande bellezza” impossibile da trovare. Con il grande rimpianto di un amore giovanile perduto (“Perché Lisa mi lasciò?”). La sua “Rosebud”.
Da questo punto di vista Jep ha molti punti in comune con la rockstar di “This must be the place” alla ricerca di un senso di una vita dal grande futuro alle spalle.
Sorrentino ci fa fare un giro nei salotti intellettuali tra cocainomani frustrate, esibizionisti, feste alcoliche e stordenti, volti massacrati dalla plastica, vecchi gagà in decadenza, suore depresse, preti esorcisti al limite del grottesco, quasi sante mummificate, tutti impegnati in discussioni in cui un manto di intelligenza posticcia non riesce a coprire l’idiozia che ne sta alla base.
Il suo film è fin dall’inizio un film ammantato di morte. Muore il turista orientale nel rimirare le vestigia di un paese che solo questo può vantare (vecchie strutture di un passato glorioso morto e sepolto), muore la Ferilli interprete di una spogliarellista custode di un triste segreto che riesce a dargli lampi di amore, muore la ragazza che in passato gli aveva mostrato per prima i seni. Ma tutti i protagonisti di questa società rumorosa ed eccitata non sono altro che dei morti che non sanno di esserlo. I funerali diventano momento importante per andare in scena, per ostentare un dolore costruito, interpretato, per farsi vedere. Per esorcizzare quello vero, da non mostrare.
E’ tanto quello che Sorrentino mette nel sacco che ci consegna e fatica a fare in modo che questo riesca a contenere tutto. Ma probabilmente è proprio qui il limite del film (comunque tra i migliori per iniziativa, struttura e ambizione sfornati dal cinema italiano negli ultimi anni), il voler evitare di strabordare, di uscire dai limiti di quel sacco. Fellini richiamato nelle scene della giraffa e del mago e in quella del fenicottero lo avrebbe incitato ad esagerare ulteriormente.
Però abbiamo una buona notizia per il cinema italiano. Abbiamo finalmente un autore. Un regista che sa pensare ad un cinema finalmente adulto.
Il film si apre su una festa MARTINI che inaugura una serie di product placement di marche storiche italiane che vedono partecipare SAN PELLEGRINO spesso presente al desco dei protagonisti, la birra PERONI con casse accatastate all’interno di un locale, il design domestico di BRANDANI (di cui abbiamo uno spremiagrumi con marchio in bella evidenza), finanche lo STOCK brandy citato in una flano pubblicitario vintage.
APPLE partecipa con MAC e I-PHONE, il finanziatore BANCA POPOLARE DI VICENZA mostra una sua filiale mentre ha buona rilevanza anche una cuffia COLMAR ben in vista in testa all’artista concettuale sbeffeggiata da Jeb.