Un’attempata signora bulgara si reca da una veggente che le dice che per evitare la morte deve trovare un uomo nero… e dove lo trovo un uomo nero? Su Facebook! Inizia così il film The Black sea di Derrick B. Harden e Crystal Moselle in concorso al Torino Film Festival 42. La scenetta è mero pretesto per fare in modo che l’afroamericano Khalid (lo sesso Derrick B. Harden) risponda all’appello sul social e si ritrovi disperso in terra bulgara (la donna che gli ha promesso soldi per essere “toccata” nel frattempo è deceduta), senza soldi e senza un posto dove stare. Gli fregano subito anche i documenti e quindi non può neppure rientrare. Si barcamena per sopravvivere e grazie all’aiuto di una ragazza locale riesce a realizzare l’idea di aprire un locale rudimentale, il Blue flowers, che avrà un inaspettato successo. Commediola che parte bene e assomiglia un po’ a quelle italiane tipo Mollo tutto e apro un Chiringuito o alle robe di Edoardo Bruno piuttosto che Rocco Papaleo ed è divertente finchè la verve di Harden tiene poi però il duo di autori non sa più dove andare a parare e il racconto scema in un finale piuttosto confuso e inconsistente. Restano alcuni momenti piacevoli ma il film non riesce mai a diventare qualcosa di più (l’americano che arriva dai ricchi States e si trova rifugiato in Bulgaria capovolgendo ciò che accade solitamente, poteva essere spunto di qualcosa di più intenso ed impegnato). (voto 5/6) A parte la citazione di Facebook, molte le marche citate (McDonald’s, I-phone, Western Union) e presenti come product placement come Coca Cola, Caffè Vergnano, Adidas, Sony.
E non poteva mancare in concorso un film ucraino, Dissident di Gurenko e Alferov, in cui ha una particina addirittura Zelensky a testimonianza di come si tratti di opera di “propaganda” o se vogliamo controinformazione (a volte le due coincidono…). Si narra della storia di un dissidente ai tempi dell’Unione Sovietica che si è immolato in piazza (dopo la Primavera di Praga vari furono gli episodi di questo tipo di protesta, il più rimembrato è Jan Palach, in cui uomini si davano la morte in questo modo per la libertà). Fondamentalmente si vuole far presente, contro la narrazione Russa, che il problema dell’indipendenza dell’Ucraina c’è sempre stato e non è vero che russi e ucraini erano totalmente popoli “amici” nell’era Andropov e Breznev. Detto questo il film è formalmente molto bello, scuola Sokurov, e costruito bene con gli episodi raccontati in periodi temporali che incastrano passato e presente. (voto 6+)
Torna al cinema come regista Marjane Satrapi, autrice iraniana ormai trapiantata a Parigi alla quale città vuol rendere omaggio con il film Paradis Paris presentato fuori concorso al Torino Film Festival 42. E’ una commedia con una moltitudine di personaggi rappresentati (una cantante lirica ormai sul viale del tramonto creduta morta e “resuscitata” (una Bellucci difficilmente credibile nel ruolo), il marito direttore d’orchestra, un conduttore televisivo di mistero e horror (André Dussolier), la governante immigrata sposata con un netturbino di origini colombiane con una madre fumantina (Rossy De Palma, l’unica che riesce a strappare un sorriso), un truccatore di cinema omosessuale che si innamora di uno stuntman che vive col figlio piccolo, un cameriere che non ha mai superato il lutto per la perdita della moglie, una ragazzina vittima di revenge porn che vuol suicidarsi e viene catturata da un serial killer che viene assillato dalla logorrea della vittima fino a rilasciarla – credetemi, è proprio così- e altre), che vorrebbe essere tante cose, esistenzialista, un’interrogazione sul passare del tempo e la morte, la possibilità di avere una nuova vita, rappresentazione del destino… ma non riesce ad essere altro che un vano tentativo con il risultato di essere un film brutto e, peggio, inutile. Un film che ha il gusto del caffè che propina il cameriere già citato, un caffè espresso… al limone (!). Non vorremmo scrivere questa che sembra una banalità, anche perché non abbiamo nulla contro la regista, ma ci sembra evidente che con il passaggio alla regia della Satrapi abbiamo perso un’importante autrice di graphic novel e abbiamo avuto in cambio una mediocre regista. (voto 5-) Range Rover, Singer, Peugeot, Aperol, Ricard il product placement.
Quando si deve rappresentare artisticamente la malattia si corrono vari rischi. Il rischio del pietismo, della banalità, della semplificazione. Ancor più se la malattia è la demenza senile, cosa assai delicata perché è difficile trovare l’equilibrio tra il “divertimento” rappresentato dalle grottesche situazioni a cui chi ne è colpito va incontro e il dolore vero di chi deve accudirlo. Yianni è un greco immigrato negli Stati Uniti con la moglie che, dopo una vita di sacrifici e la perdita di un figlio, ha trovato la stabilità con il successo del Diner che possiede e addirittura, nonostante l’età non più verde, pensa ad ampliarlo facendo nuovi debiti pensando quindi ancora al futuro. Futuro che, ahimé, scoprirà essere molto breve perché, appunto, scopre di avere i primi sintomi di demenza e che saranno pochi gli anni che gli restano. Tutto ciò in Here’s Yianni! di Christina Eliopoulos, ispirato ad una storia vera. Diciamo subito che pochi dei rischi di cui ho parlato vengono evitati dalla regista che cade nella trappola troppo spesso. Inoltre, per riuscire a “riempire” la storia, aggiunge le vicende del fratello di Yianni, un affarista piuttosto insensibile, donnaiolo ed egoista, che diventa contraltare moralistico alla rettitudine di Yianni… un po’ come a dire il male colpisce le persone sbagliate… Si salva solo l’interpretazione della magistrale e matronale Julia Ormond nel ruolo di Plousia, la moglie. (voto 5) Ancora Singer tra il product placement accompagnata da Lexus, Korg, Columbia, Calvin Klein e Starbucks.
Avevamo già apprezzato il film Picciridda, film d’esordio del siciliano Paolo Licata. Cantore della propria terra, per il suo secondo film porta sullo schermo del Torino Film Festival 42 L’amore che ho la biografia di una grande cantante e cantastorie siciliana, Rosa Balistreri. I suoi anni di povertà quando bambina veniva sfruttata dai padroni terrieri in un duro lavoro non pagato, il padre alcolizzato e violento, il matrimonio combinato, il carcere per il tentativo di ucciderlo, l’allontanamento forzato dalla figlia, il femminicidio della sorella fino agli anni della “gloria” come cantante della rabbia dei poveri e icona della sinistra (Guttuso, Dario Fo, Camilleri tra i suoi ammiratori). Il film è tutt’altro che una biografia tradizionale o un’agiografia, è invece un film sanguigno, rabbioso e potente. Un film che rappresenta la forza femminile e la sua emancipazione in modo da oscurare la retorica mascherata da simpatia e il femminismo un po’ troppo artificioso di Domani è adesso. Felice è anche la scelta del regista di utilizzare scarti temporali per ricostruire poco a poco la vita di Rosa accennando soltanto agli episodi centrali per svelarli poi tutti insieme in un cunto cantato finale della protagonista, “l’unico modo che ho per raccontare”. Aiutato dalle emozionanti interpretazioni delle tre attrici che interpretano la protagonista nelle varie età della sua vita (Anita Pomario, Donatella Finocchiaro e Lucia Sardo), Licata crea cinema, commozione e turbamento senza fare sconti e senza entrare nel campo dello stucchevole. Emozionante anche il duetto di Lucia Sardo/Rosa Balistreri con una delle su eredi moderne, Carmen Consoli. (voto 7,5)