Inizia il Far East Film Festival edizione 27 con il film d’apertura presentato in pompa magna dalla direttrice Sabrina Baraccetti (che da sempre dirige il festival assieme a Thomas Bertacche) che ha introdotto, prima del regista del film d’apertura Green Wave, gli illustri ospiti, artisti asiatici del cinema, presenti in sala. Poi è venuto il turno del simpatico regista cinese Xu Lei che ha licenziato questo film tra l’autobiografico e il metacinematografico che assomiglia molto come idea all’ultimo film di Gondry da pochi giorni visto e recensito (Il libro delle soluzioni) su dy’s news. In entrambi un artista (là un regista, qui uno sceneggiatore) sono in crisi a causa delle difficoltà del loro ultimo film. Quello di Wei Fei, il protagonista di Green Wave, è stato massacrato da regista e produzione ed è un fallimento. La differenza tra i due film, entrambi giocati sui toni della commedia, è che mentre Gondry si mette in gioco utilizzando gli eventi rocamboleschi e bizzarri che gli succedono per parlare delle proprie nevrosi con un’autocritica lodevole, Xu Lei utilizza alcuni passaggi piuttosto simpatici, ma decisamente lontani dall’essere originali (ad esempio perde una scarpa e la sostituisce con un gambaletto facendo finta di essersi fatto male, i protagonisti si vestono da animali ecc.) solo per far sorridere e per autocommiserare il povero artista. Anche la parte che narra del ritrovamento di un vaso da parte del padre e che questo crede vero e dalla cui vendita già pregusta ricchi guadagni che dovrebbe affrontare il binomio “vero/falso” rapportato all’arte non è ben approfondito. (voto 5,5) Holly’s Aucmon e citazioni per Christie’s e Sotheby’s nel product placement del film.
Ancora un film sull’esorcismo? Ancora un film sulle suore e l’occulto? Ebbene sì, tra i pochi horror presenti nella rassegna, Dark nuns del sudcoreano Kwon Hyuk-jae rende protagonista del suo film suor Yunia che scopre la possessione diabolica su di un ragazzo e capisce il pericolo osteggiata dal clero maschile. Proprio questo lato, di critica femminista e contro la tradizione maschilista della Chiesa, è l’unico interesse di un film altrimenti scontatissimo, già visto e rivisto e con un regista che non ha il dono della sintesi. Però questa figura di suora sboccata che fuma come un turco, beve Coca Cola (product placement), mischia il cattolicesimo con i riti sciamanici e con la cartomanzia e oltretutto ha la pretesa di candidarsi come esorcista nonostante il suo essere donna, ha un suo interesse. Per il resto bei costumi per i riti tradizionali coreani, la solita presenza di animali collegati all’occulto (topi, corvi, galli neri regolarmente decapitati, caproni, serpenti), i soliti versacci e intimidazioni di voci interne lugubri, acqua santa a secchiate, perfino le chiavi di Sant’Antonio prestate direttamente dal Vaticano e un sacrificio finale per poter sconfiggere il demonio. (voto 5) Oltre alla citata Coca Cola, Philips e Mohave auto.
Il titolo del film del giapponese Katayama Shinzo, Lust in the rain, rispecchia esattamente la sequenza iniziale, una delle più emblematiche e suggestive del film: un ragazzo e una ragazza si incontrano ad una fermata d’autobus, lei ha paura dei lampi e si lascia convincere di togliersi di dosso i vestiti perché tra sintetico e metalli attirano le saette. Finirà in una copula selvaggia in mezzo alla pioggia e al fango. Un pink? L’inizio farebbe pensare a queto ma in realtà il regista mettendo assieme quattro racconti manga dell’artista Tsuge Yoshiharu ne trae un interessante miscela di generi dalla commedia erotica, alla commedia drammatica, dalla lotta di classe al distopico futurista passando per l’horror e il surreale per approdare al dramma di guerra. Infatti, attorno alla figura del protagonista Yoshio, che scopriremo aver subito menomazioni durante la guerra con la Cina, e della donna che ama, Fukuko, che è forse una prostituta, forse una proprietaria di una tavola calda, forse una vedova nera uxoricida, si dipanano varie storie in una specie di cut-up burroughsiano, che possono essere ricordi, invenzioni della mente, allucinazioni. “Se mi addormento mi sveglio” dichiara ad un certo punto il protagonista e fa capire di cosa stiamo parlando… Peccato per le parti erotiche censurate dai soliti bollini bigotti e ipocriti imposti al cinema giapponese. (voto 7).
L’ultima follia di Takeuchi Hideki (Thermae Romae) è Cells at work! presentato in prima italiana al Far East Film Festival 2025. Il regista, con il suo sceneggiatore Takunaga Yuichi, dà un corpo ai vari elementi del sistema vascolare creando un’umanizzazione di globuli rossi, piastrine, globuli bianchi, virus, anticorpi ecc. Per spiegarmi meglio abbiamo ragazzi vestiti tipo cappuccetto rosso che sono incaricati di portare ossigeno alle varie parti del corpo, bianchi guerrieri che combattono contro variopinti tipi vestiti da virus tentacolari, fino ad arrivare ad una vera e propria guerra con da una parte anticorpi che sembrano agenti di forze di polizia aiutati da una guerriera ninja e un eroe “globulo bianco”, tra i pochi superstiti di una degenerazione leucemica, e dall’altra cattivissimi globuli ribelli che stanno uccidendo i compagni (e il corpo in cui si trovano). Una guerra che vede anche l’intervento di chemioterapia sottoforma di bombe che uccidono buoni e cattivi e la terribile radioterapia con radiazioni che rendono tutto tossico e che prepara il punto zero per il trapianto di midollo osseo. Tutto questo avviene all’interno di una studentessa che si è appena innamorata di un coetaneo (e quando questo succede dentro di lei si scatena una samba brasiliana che destabilizza le cellule del cervello) e che purtroppo si ammala portando avanti la storia su due livelli, la parte coloratissima e delirante del sistema vascolare e degli organi (il fegato è rappresentato come un night club in cui ci si può rilassare e disintossicare bevendo cocktail benefici) e la parte della vita comune melodrammatica con la protagonista che, orfana di madre, vive con un padre alcolizzato e, appunto, trova amore e malattia. Nella presentazione in video al film Hideki dichiara che il suo è un film divertente, toccante e istruttivo… confermiamo. (Per finire non possiamo non citare la sequenza che si sviluppa nel reparto “ano” del padre in cui la “cacca” in forma di diarrea, ovvero decine di elementi con una tutina marrone, cerca di correre fuori aiutata dai muscoli interni del retto, rappresentati da lottatori di sumo, e i muscoli esterni che cercano di impedirlo, rappresentati da giocatori di rugby!) (voto 7) Principale product placement ci sembra Sansei ma anche Isuzu e Yazaki sono mostrate. Una sequenza è girata all’interno del Seaworld in Giappone.
Con Sunshine della brava e ormai affermata regista filippina Antoinette Jadaone (presente in sala con la bellissima attrice protagonista Maris Racal) affrontiamo il tema scottante dell’aborto nel paese più cattolico dell’Asia, in cui la pratica è ancora illegale e considerata moralmente deplorevole. La Racal interpreta Sunshine, una campionessa filippina di ginnastica artistica che si sta preparando per andare alle Olimpiadi. Si ritrova però in stato interessante indesiderato e vede davanti a sé il fallimento di tutto ciò per cui finora è vissuta. Attorno a lei si fa il vuoto, le amiche si allontanano perché ritrovarsi incinta senza compagno è vergognoso, il ragazzo colpevole del misfatto prima si tira indietro poi si ripresenta ipocritamente accompagnato dal padre prete. Solo la sorella ceca di darle un sostegno. Sunshine disperata si reca nel quartiere popolare di Quiapo dove si vendono sottobanco intrugli per indurre all’aborto e finirà in ospedale. L’occhio della Jadaone si posa, utilizzando una fotografia naturalistica, sulla vita del quartiere e principalmente delle donne “povere” senza assistenza, sfruttate e violentate anche dai parenti, con la protagonista che si ritrova in una realtà fatta di dolore e sacrificio, ben lontana dalla sua zona di comfort di studentessa e atleta. Un ritratto di donna in un contesto patriarcale e bigotto. (voto 6/7). Product placement quasi inesistente, solo una birra Red Horse da segnalare.