Il primo film che sono riuscito a vedere al Torino Film Festival 42 è stato il film in concorso Holy Rosita, un film belga fiammingo dell’esordiente Wannes Destoop. E’ un film incentrato sulla figura di una donna dalla corporatura oversize che la mette in difficoltà nel rapportarsi con gli altri. Si districa tra lavoretti in una lavanderia, come steward allo stadio e facendo massaggi casalinghi (che finiscono in una prestazione sessuale). La ragazza che non si sente a proprio agio con sé stessa è anche piena di debiti. Lei è una figlia adottiva dato che la madre non l’ha voluta riconoscere alla nascita e sogna di avere un figlio per dimostrarsi “migliore della sua madre naturale”. Come fare in queste condizioni economiche disastrose a progettare un figlio? Holy Rosita è un film che vuole mettere in scena le problematiche della maternità in condizioni sociali difficili, ma anche della diversità. Infatti la brava Daphne Agten si mette in scena senza vergogna e le sue grosse forme nude vengono messe in primo piano in più scene interrogando lo spettatore stesso sulle reazioni che può avere a tale visione. Come ci rapportiamo con il diverso? (voto 6) A parte la passione della protagonista per il puzzle (marca Schmidt) il rarefatto product placement si riduce ad una citazione della Nutella e ad un elenco di oggetti da sequestrare tra cui un Philips e un Proline.
Fuori concorso invece è passato The summer book, film del figlio di Malcom McDowell, Charlie, in trasferta finlandese. Tre personaggi su un’isola deserta, un padre che deve fronteggiare il dolore della perdita della moglie da cui non riesce a riprendersi, la figlioletta di nove anni e la nonna. E’ questo un film sul tempo, quello che passa troppo veloce per la nonna che sente avvicinarsi la morte, quello che non passa mai per la bambina che continuamente si annoia in questo paesaggio bellissimo ma vuoto, quello che non ha più importanza per il padre che non riesce a ritrovare la voglia di vivere e quindi di ridare un senso al significato stesso di tempo. Tutto il film poggia sulle spalle di una Glenn Close che si mostra invecchiata e con un volto rugoso e aspro, in versione con treccine che la rendono simile ad una saggia squaw indiana o senza che invece la fanno assomigliare ai vecchietti sagaci dei film western, in realtà il film, pur tratto da un testo interessante, è girato con un linguaggio ormai sorpassato e risulta un indigesto prodotto accademico. (voto 5)
Dopo i dolori esistenziali di Rosita e quelli della perdita e dell’incomunicabilità di The summer book, ecco arrivare come un colpo al petto quelli reali di Gaza nel film collettivo From ground zero in cui vari artisti palestinesi mettono in scena le loro speranze e le loro tragedie in una ventina di cortometraggi che compongono l’opera. Non si tratta di un’opera “politica”, qui non si tratta di schierarsi a favore di Hamas o di Israele, come invece accade nel resto del mondo in cui i commenti a favore di una parte o dell’altra sembrano quelli che si fanno assistendo ad una partita di calcio invece che ad un’immane tragedia. Il film è invece un grido di dolore di giovani che vorrebbero vivere una vita normale con le loro aspirazioni (studiare, esprimersi, ballare, cantare, anche solo riavere la possibilità di dormire sul divano di casa propria) e i loro progetti. Vorrebbero parlare di gioia, pace, allegria e amore, invece si trovano a vivere sotto le bombe con case distrutte, famiglie sterminate, compagne di vita travolte dalle macerie delle proprie case. Una tragedia a cui bisogna metter fine e di cui tutti dovremmo interrogarci. (voto 7) Surreale in tanta distruzione e povertà trovare indosso ai protagonisti le marche con cui il mondo occidentale propina speranze di ricchezza e lusso, Versace, Boss, Dior…