IL GRANDE GATSBY (1974) – Jack Clayton
“Apatica. Calpestano tutto e poi si rifugiano in mezzo ai quattrini. Indifferenza ed egoismo sono i loro unici sentimenti”
Ritratto di un’aristocrazia classista e razzista, ritratto di un’epoca che sta per finire, ritratto di un territorio sul finire del grande sogno americano, questo è il romanzo di Scott Fitzgerald, tra autobiografia, decadentismo e rimpianti.
Long Island 1922 nella ricca società newyorchese dopo la prima guerra mondiale appare dal nulla l’arricchito Gatsby con la sua immensa fortuna, con le sue feste generose a tempo di Charleston, con il suo mistero.
Un arrampicatore sociale che è riuscito nell’impresa di uscire dalla povertà, con mezzi non molto leciti, con l’unico scopo di riconquistare la vuota e capricciosa Daisy.
Nella baia di Long Island vive nella sua dimora principesca in attesa di farsi notare dall’amore passato, la quale ha preferito restare “in società” piuttosto che aspettare il suo ritorno dalla guerra, che abita al di là del mare dove brilla un raggio verde di speranza.
Le sue gesta sono raccontate dal cugino di Daisy occasionalmente diventato vicino di casa del grande Gatsby, il malinconico e misterioso personaggio che imparerà ad ammirare.
La sceneggiatura di Francis Ford Coppola, piuttosto fedele al romanzo, tra i tanti temi presenti nello scritto di Scott Fitgerald si concentra soprattutto su quello che evidenzia la crudeltà ipocrita di una classe sociale pronta a triturare qualsiasi sentimento per mantenere titolo e ricchezza.
Jack Clayton, sottostimato quanto sensibile professionista dello schermo, capace di licenziare opere cariche di atmosfera ed eleganza registica (almeno per quel che riguarda le due più riuscite, questa e “Suspence” da Henry James) ed ottimo direttore di attori, dirige con perfetta caratterizzazione dei personaggi. Tanto sono malinconici e pieni di speranze fallite il Gatsby di Robert Redford e la sua nemesi, il benzinaio tradito George, di Scott Wilson, quanto sono esuberanti nelle loro peculiarità la civettuola e frivola Daisy di Mia Farrow, la caustica Jordan di Lois Chiles e la tragica “Bovary” di provincia Myrtle della stupenda Karen Black.
Vera immagine simbolo di una classe invidiosa, traditrice e criminale è invece Bruce Dern interprete del marito di Daisy, l’ex-campione di Polo (ma lui non vuole essere definito “solo” così) e viveur incallito, amante di Myrtle, Tom Buchanan, l’anima nera della storia.
Il film risulta forse un po’ troppo verboso ma sicuramente più rispettoso delle parole del grande scrittore che non il remake di Baz “Dizzy” Luhrmann di cui parleremo.
Uno degli ultimi esempi di congegno narrativo della vecchia Hollywood filtrata dalla sensibilità autoriale europea prima dell’esplosione della “modernità” con gli anni ’80, è opera che mantiene tutta la grazia della narrazione della grande tradizione degli Studios e il piacere dell’approfondimento letterario abbinato ad un’abile rappresentazione visiva (intensi primi piani, raffinate sequenze dal gusto visivo notevole).
ROLLS ROYCE e PLAZA HOTEL sono più simboli di classe che product placement, mentre altro discorso è per il cartello della COCA COLA ben visibile al distributore di George e, soprattutto, per le scatole TURNBULL & ASSER ben allineate nell’armadio di Gatsby mentre sommerge l’amata con le sue lussuose camicie.