Facebook Twitter Canale Youtube RSS
CINEMA
20 Gennaio 2025 - 20:04

DIARIO VISIVO (Ingmar Bergman 9)

 Print Mail
Da "A proposito di tutte queste... signore" a "Il rito"
DIARIO VISIVO (Ingmar Bergman 9)

Dopo l’intensa trilogia (che la sia o no…) che ha dato una svolta alla sua esperienza di regista cinematografico, evidentemente Bergman sente il bisogno di tornare a qualcosa di più “leggero”. A proposito di tutte queste… signore (1964) potrebbe apparire come un nuovo episodio delle commedie sui rapporti tra uomini e donne che già l’autore aveva frequentato (Donne in attesa, Lezione d’amore, Sorrisi di una notte d’estate…), in realtà questo ha una deriva sarcastica e polemica che lo rende differente. Vi è anche qui un maestro violinista (che non si vede mai e che rappresenta probabilmente una autocritica del regista) che ha rapporti con più donne (vediamo all’inizio durante il suo funerale l’arrivo di ben sei “vedove” non ufficiali e la vera moglie sfilare davanti al feretro) ma qui non si parla di tensioni psicologiche di coppia e di battaglie dialettiche tra consorti. Qui tutte si conoscono, rappresentano una specie di corte più o meno felice (vi è anche quella che vorrebbe uccidere il maestro) e il protagonista diventa un critico, Cornelius, maldestro, vanesio e frustrato che vuol scrivere la biografia del violinista. Bergman si fa beffe così della critica teatrale e cinematografica che riunisce nel personaggio, dei censori e anche dell’artista che si pone al di sopra degli altri. In realtà, lo scopriremo nel finale, egli è solo una pedina delle ben più scaltre donne che lo circondano. Il film vuol essere comico senza troppo riuscirci. Le battute sarcastiche segnano ormai il loro tempo (ad esempio la gag in cui il critico scrive una frase senza capire cosa sta scrivendo è centrata ma rivista oggi piuttosto abusata) e la comicità che vuol omaggiare il cinema muto (inserti in bianco e nero ironicamente melodrammatici, velocizzazione delle corse, torte in faccia…) non pienamente centrata. Quello che invece resta memorabile di questo film è che è il primo a colori di Bergman e il lavoro sia sulla composizione della scena, sia il lavoro sul colore è di valore assoluto. Una meraviglia per gli occhi ma un film che si fa fatica a seguire con piacere. “Quasi tutti i critici lo maltrattarono, accusandolo persino di cattivo gusto, nonostante l’ineccepibile eleganza stilistica. E’ sicuramente la sua commedia più acida e sbeffeggiante, un divertito tiro al bersaglio contro i critici, ma non sono risparmiati censori, impresari, artisti” dal Morandini a cui evidentemente non è dispiaciuto. (voto 6) Inaspettato l’insistito product placement del Macnish whisky.

E arriviamo ad uno dei massimi capolavori del cinema mondiale. Persona (1965) è stupefacente per compostezza d’immagine, ricerca di un linguaggio cinematografico altro, per asprezza psicoanalitica (superato in crudeltà psicologica solo dal successivo Sussurri e grida), per intensità. Vederlo tutto intero è un’esperienza massacrante. L’intensità è quasi insostenibile. Spesso ho parlato dell’incredibile pregnanza dei primi piani di Bergman, il suo segno personale, ebbene in questo film si raggiungono le vette più alte in questo senso. Volti sparati a tutto schermo, quasi dipinti con le ombre a livello dei grandi ritrattisti rinascimentali. La tecnica raggiunge il suo culmine quando i volti delle protagoniste, Bibi Andersson e Liv Ullman si uniscono grazie ad uno split screen inquietante. Ma il film non è tutto qui. Bergman riesce a rendere vivo e cinematografico un testo che andrebbe bene (e infatti ne sono state tratte, anche recentemente, magnifiche versioni teatrali) sul palcoscenico. Due donne e una quinta, basterebbero. Invece il maestro vi inserisce un montaggio schizofrenico, riprende le due donne isolate tra scogli e mare con una carrellata strepitosa, mischia Godard, Fellini, le avanguardie degli anni Venti del Novecento e omaggia pure l’amato cinema muto. Vi sono momenti di montaggio di immagini da altri film (anche irriverenti, all’inizio vi è pure per una frazione di secondo un pene eretto) in forma di saggio visivo che solo Godard con le sue Histoire(s) du cinema eguaglierà un paio di decenni dopo. Sì è vero, poi c’è anche la narrazione, la storia di un’infermiera che si prende in cura un’attrice di teatro rinchiusasi in un mutismo patologico. Vi è la psicoanalisi delle due donne, una aspirante al ruolo di madre ma senza figli e l’altra interessata solo alla carriera e all’arte che odia aver avuto un figlio. Le due donne che scopriranno di essere due facce della stessa donna. Della Donna. Ma non è tutto lineare. Niente affatto. Vi sono sovraimpressioni, fusioni, ripetizioni (stupefacente il discorso rivelatore finale tenuto da Bibi Andersson e ripetuto due volte, prima con il controcampo del volto della Ullman, poi con il primo piano della Andersson che parla). “è il capolavoro bergmaniano della reversibilità delle apparenze, della porosità dei volti, della perdita completa di sé (…) Con l’uso dei bianchi saturi, i cambi di direzione della colonna sonora, il perforarsi e il consumarsi della pellicola (che prende fuoco), lo svanire delle anime, la metamorfosi dei corpi e la nascita di una mostruosa chimera (…) il cineasta si cimenta qui in una delle più potenti evocazioni del male così come fu sperimentato nel corso del XX secolo con l’attuazione dello sterminio altrui” (Jacques Mandelbaum, Maestri del cinema Ingmar Bergman, Cahiers du cinema, 2007). (Voto 10)

Parentesi documentaristica per il regista, con la partecipazione al film collettivo a episodi Stimulantia (1966/67) in cui 9 registi svedesi della nuova e vecchia generazione girano 8 shorts con una flebile traccia ispiratrice, ovvero cosa li stimola a far cinema. Alcuni come Hans Abrahmson e Arne Arnborn lo traspondono in un breve omaggio a due grandi artisti, Charlie Chaplin (per cui il regista si reca alla casa natale in Inghilterra) e la soprano Birgit Nilsson (per cui Arnborn si limita a proporre immagini di una prova e di un’opera). Altri come Jorn Donner, Tage Danielsson e Hans Alfredson, Gustaf Molander e Vilgot Sjoman scelgono la fiction con raccontini morali (o immorali come quello di Alfredson e Danielsson in cui viene data una visione umoristica della violenza carnale non troppo politically correct e quello di Vilgot Sjoman che fin dal titolo “Una negra nell’armadio” lo è altrettanto e in cui il mito italiano dell’amante svedese evidentemente per gli svedesi è invece una bella colored girl). Il migliore di questi è “La collana” di Molander, tra Rohmer e Ophuls. Infine due “found footage” film, quello di Lars Gorling, un moralistico sguardo al mondo delle corse automobilistiche, e quello di Ingmar Bergman. Quest’ultimo si concentra sul figlio Daniel avuto da poco dalla pianista Kabi Laretei e mette in scena se stesso che ci propone filmini amatoriali da lui girati al figlioletto con interessanti considerazioni in voice over. Diciamo che nessuno dei registi si è impegnato troppo e pochi episodi (Molander appunto, Bergman, in parte il bizzarro spezzone di Sjoman che ci dà una versione di Festa Campanile in salsa svedese) arrivano alla sufficienza. (voto 5/6) Il product placement è tutto nell’episodio “Grand prix” di Lars Gorling, volente o nolente tutte le più importanti marche di carburante e ricambi d’auto sono inquadrate sulle varie piste di corse d’auto (Esso, Dunlop, Castrol ecc…)

Alma e Johan raggiungono un’isola “deserta” (?). Lui ha seri problemi psicologici, lei lo segue sperando di evitarne la discesa nella follia, con la sua vicinanza piena d’amore. L’isola è tutt’altro che deserta, piena dei personaggi che riempiono la testa di Johan. C’è una frase che è emblematica nel film, “lei vede ciò che vuole vedere!”. Come ad esempio la famiglia di nobili decaduti che rappresenta tutto ciò che Johan vuole evitare, i discorsi banali, le malizie, i sottintesi sessuali, i ricordi spiacevoli. Quel passato che gli ritorna nel bambino che incontra sulla scogliera, un passato da uccidere. Sono vari i personaggi tra il reale e il fantasmatico che vengono incontrati dalla coppia sull’isola, la vecchia (ho 116 anni a no, scusa, 76) che rivela ad Alma dove Johan tiene il diario, il bambino già citato, la “vecchia fiamma” di Johan (ancora il passato che lo assilla), Veronica (la mia ossessione per Veronica divenne un tormento, scrive nel suo diario), un ex-amante di questa che cammina sui muri e sul soffitto, la donna con la maschera alla Diabolik che si smonta come una bambola… Un incubo psicanalitico di un personaggio alla ricerca di un’identità in cui Bergman miscela spunti presi da sue vere relazioni con le donne, l’amore per la solitudine in isole semidisabitate, suggestioni da film di maestri a lui cari come Sjostrom, Murnau ma anche Bunuel, Antonioni e Fellini, il teatro… Ma quello che importa, ancora una volta, è la resa immaginifica di Bergman coadiuvato da un Nykvist al suo meglio. Quante inquadrature memorabili! Piani fissi di cinque minuti, composizione del “quadro”, carrellate emozionali, sequenze surreali (il nudo di Veronica morta, il piede della vecchia, la cicatrice di un’altra donna sotto il pube), altre gotiche (i corvi, la pistola, i cubicoli del castello). Parlo del film L’ora del lupo (1968), il cui titolo si riferisce a quell’ora della notte così chiamata (ma più precisamente nel film è il momento nella vita di Johan) in cui succedono le cose, in cui si muore e si nasce (“E’ l’ora in cui gli insonni sono perseguitati dai più riposti terrori, in cui i fantasmi e i demoni si fanno più possenti. Il film è dunque una storia di allucinazioni e di paure, un ennesimo viaggio nell’io, nell’inconscio” Sergio Trasatti, Ingmar Bergman, Il Castoro editore). Siamo ancora nel periodo più fervido e impegnativo del cinema bergmaniano, probabilmente più confuso e meno perfetto di Persona, Il silenzio e Luci d’inverno, ma comunque cinema di altissimo livello. “L’ora del lupo – rovesciamento crepuscolare ed espressionista di Persona, accecante di luce – è la rappresentazione di una fantasmagoria da incubo (…) il regista persevera (per di più nell’ora stessa in cui Liv Ullmann porta in grembo il loro figlio) nel suo perenne regolamento di conti con la propria infanzia e con il suo problematico ruolo di padre” (Jacques Mandelbaum, Maestri del cinema Ingmar Bergman, Cahiers du Cinema, Edizione italiana 2011). (voto 7,5) Nessun product placement.

Nel 1968 Bergman gira, sempre sulla “sua” isola, La vergogna, film tematico, film sulla e contro la guerra. Nonostante si parta sempre da un luogo delimitato e da una coppia in crisi, il regista si allontana dalla soffocante metafisica psicologica (per molti versi anche esaltante cinematograficamente) dei suoi ultimi capolavori Come in uno specchio, Luci d’inverno, Il silenzio, Persona, L’ora del lupo. Torna alla narrazione, sembra di ritrovare il regista degli esordi (con l’esperienza tecnica amplificata e con uno Sven Nykvist che a tratti sembra emulare il Robert Capa dei reportage fotografici di guerra) e concordo con Sergio Trasatti (Ingmar Bergman, Il Castoro) quando scrive: “Curiosamente, proprio nel momento in cui Bergman decide di raccontare di più, di attardarsi nei dettagli narrativi, il suo grido diventa esteticamente meno efficace, meno intenso. Qui si mostra molto, si dimostra meno del solito. Lo stesso ricorso ai grandi attori (che sono quelli di sempre) non è più l’elemento portante del film, e certe enfasi rischiano di diventare momenti di distrazione. Ma l’intento è sincero, la voglia dell’artista di comunicare qualcosa di più del rispetto al consueto foro interiore è indiscutibile. Bergman affronta il sociale, tenta un manifesto, alza la voce”. E questo “manifesto” è un’accorata presa di posizione contro la guerra che causò vari maldipancia nel periodo della contestazione. Perché la posizione di Bergman è evidentemente quella espressa da Eva Rosenberg (Liv Ullman), cioè la posizione dell’artista e della persona comune che si trovano in mezzo alla violenza e alla distruzione, cioè quella del pacifista a cui non interessa chi ha ragione o torto, quella di colui che non sa o non vuol sapere la motivazione del conflitto, vuole solo che cessi, denunciandone gli orrori. La storia è quella dei coniugi Rosenberg (lui, Jan, è Max Von Sydow), artisti una volta famosi che si ritrovano a vivere una vita semplice sull’isola. Il loro rapporto va verso un deterioramento, vuoi perché lui è debole e malato, vuoi perché lei desidera un figlio che non arriva, vuoi perché quella non è la loro vita “artistica” del passato e sempre rimpianta. Poi attorno a loro i carri militari, i politici convertiti alla causa, i vicini che diventano ribelli contro il potere, ma soprattutto le bombe e la morte. I loro problemi di nostalgia e coniugali diventano piccoli, microscopici di fronte alla paura di essere uccisi, annientati. L’orrore della situazione li trasforma, lei si concede ad un ambiguo funzionario (che le fa regali e le dà dei soldi), lui diventa un assassino approfittando. Il loro rapporto si sbriciola ma la situazione li mantiene insieme. Ed insieme vagano sognando un’altra vita dispersi su una barca in mezzo al vasto mare. “Oggi, vent’anni dopo, posso vedere molto chiaramente che era diviso in due parti molto diverse. La prima, quella guerra, era la peggiore. E’ troppo costruita. Ma la seconda, dopo la guerra, l’inizio del dopoguerra, quando la distruzione diventa interiore, diventa un bel film, bello davvero.” (Così il regista rispondendo alle domande di Olivier Assayas e Stig Bjorkman in “Conversazione con Ingmar Bergman”, Lindau ed.) (voto 7+) Di sfuggita su uno scaffale si nota un sacchetto con la scritta Graham’s tool, possibile product placement?

Nell’analisi della filmografia di Ingmar Bergman solitamente vengono trascurati tutti i film e i teleplay girati per la nascente televisione svedese almeno fino a Il rito (1967), forse perché i precedenti non sono usciti dalla Svezia (ora molti di questi si possono trovare su Youtube, ne riparleremo), oppure perché non abbastanza “bergmaniani”, fatto sta che da questo film televisivo il lavoro per il nuovo mezzo diventa piano piano sempre più importante per Bergman e nei decenni successivi arriveranno da lui capolavori indimenticati. Ma torniamo a Il rito. Diciamo subito che fino a questo momento è il film sessualmente più “spinto” ed è bizzarro che arrivi proprio per un media per “famiglie”, impensabile allora, ad esempio, per l’Italia. La scena finale, bellissima, in cui viene espletato il pezzo teatrale sotto processo, se fosse stata girata da Jess Franco sarebbe stata etichettata come sexploitation con quell’Ingrid Thulin in veste "decamerotica" e seno ben esposto mentre i due uomini indossano enormi falli finti. Fatta da Bergman diventa teatro provocatorio in cui “si tenta di analizzare un rito molto più antico e misterioso, quello dionisiaco del teatro”(Kezich). Questa prima notazione per rimarcare che il cinema è un’arte visiva e, nonostante la differenza tra opere per il grande pubblico senza pretese e opere colte di grandi autori, alla fine spesso il risultato immaginifico incrocia l’alto con il basso, e in entrambi si può trovare cinema che dà emozioni dal punto di vista della visione. Cos’è questo film smaccatamente austero e quasi astratto quanto vivace e pungente? Girato in nove scene, tutte all’interno di stanze spoglie (non si vede mai l’esterno), vede coinvolti un giudice e tre componenti di una compagnia teatrale (due uomini e una donna). Il giudice interroga i tre tutti insieme e poi separatamente per capire se condannarli ad una multa per aver portato in scena uno spettacolo osceno. Siamo nel periodo della liberazione sessuale e gli artisti cominciano ad azzardare. Per i bigotti e i censori istituzionali diventa difficile accettare la situazione. Tanto più che i tre vivono un rapporto in totale promiscuità, infatti la donna (Ingrid Thulin strabordante di sessualità e impertinenza) è sposata con il pacato e remissivo Gunnar Bjornstrand (il cui personaggio sembra essere un doppio dello Jan de La vergogna in tempo di pace) ma fa sesso regolarmente anche con l’altro attore della compagnia (Anders Ek, nel ruolo di un outsider sempre in bolletta e donnaiolo, il negativo dell’altro). Il giudice non riuscirà a restare indifferente davanti alla sessualità espressa da Ingrid Thulin, mostrando tutta la sua frustrazione e smania perversa repressa, fino a morirne di crepacuore. Dietro a questo evidente sarcasmo feroce contro le forche caudine della censura ipocrita ci stanno tutti i temi soliti di Bergman, nei dialoghi e nei comportamenti. Il teatro, la maschera, i rapporti difficili e a tratti distruttivi tra uomini e donne e tra tipologie umane. Aldo Serio su la Rivista del cinematografo n. 2 del 1971 scrive: “i personaggi rappresentano i tre aspetti dell’arte: il capocomico è la stanchezza, il fatalismo, la rassegnazione; l’attore giovane è l’istinto, il coraggio, la forza; la donna è il sesso liberato, il sentimento, la fiamma che scalda la creazione, la molla rituale dell’amore, cioè della fusione di tutti e tre gli elementi”. Un’ora e quindici di intensa rappresentazione psicosessuale, un botto fragoroso sottoforma di dramma per interni. (voto 6/7). Probabilmente perchè voluto dalla produzione televisiva, vi sono nel film tre chiari product placement, i fiammiferi Union match, una radio Tandberg e il whisky Macnish.

Stefano Barbacini

© www.dysnews.eu