Un corpo nudo disteso sulla rena. Gabbiani che ne mangiano le interiora. Il prometeo punito per la sua ribellione (la sua arroganza?) giovanile, il pretendere di agguantare la luce. Il vecchio Thomas Wake (Willem Dafoe imbruttito e invecchiato a bella posta) lo aveva detto al giovane assistente (Robert Pattinson) che doveva far gavetta per riuscire a poter guardare la luce del faro. Ma come è possibile che un aitante, ambizioso e presuntuoso uomo possa subire le villanie, i rimproveri, gli ordini di un vecchio acido, ubriacone e scoreggione? E allora lo scontro, il delirio.
Due uomini su un’isola che è praticamente un grosso scoglio, un faro da accudire, due uomini racchiusi in spazi limitati. L’impegno è per un mese, ma una tempesta impossibilita il cambio di gestione. I due si scontrano, il vecchio sa che già il precedente assistente ne è uscito pazzo. Visioni di sirene, apparizioni lovecraftiane. Questo è Lighthouse (2021) della celebrata star dell’horror contemporaneo Robert Eggers, potente creatore di immagini.
Il film è stato analizzato in tutti gli aspetti (se lo cercate su Wikipedia vi è una disanima psicanalitica (Freud, Jung…), mitologica (Poseidone, Prometeo), sessuale (omoerotismo, masturbazione, l’erotismo dell’immagine della sirena). Tutto è lecito per un film che (come ad esempio le opere del compianto Lynch) spiega poco e lascia aperte le porte a qualunque interpretazione.
Ma restiamo a quello che è narrato e che è mostrato. Cerchiamo un approccio oggettivo (naturalmente quasi impossibile per il cinema). La storia è ispirata da un racconto di Edgar Allan Poe ed è il riferimento più volte citato da Eggers nelle interviste da lui rilasciate. Poe e indubbiamente il mito. Poi, quello che a me interessa principalmente (“perché il cinema è l’arte di occupare lo spazio, e lo spazio non si occupa con le parole” Chaplin dixit), ovvero come Eggers ci confeziona il film. Intanto in un insolito formato 1,19:1 (per rendere più claustrofobica l’ambientazione, sembra che i due siano perennemente chiusi in una scatola…), rigorosamente in 35 mm per la resa del punto di forza del film: una fotografia monocromatica, più che un bianco e nero un tono di grigio che ricorda i disegni in grafite, abbagliante di tristezza e bellezza, dovuta ad una perfetta intesa tra il regista e il suo direttore della fotografia Jarin Blaschke, il duo che, dopo aver visto anche l’ultimo film di Eggers, Nosferatu, rischia di diventare la “next great think” dell’arte visuale.
Un film da assorbire, da ammirare più che da comprendere. (voto 7+)
Nessun product placement da segnalare.